Paolo Albani
LE RIME OBBLIGATE
E IL SANTO GABBATO


    Bernardo Bellini: chi era costui? Forse qualcuno ricorderà che il Dizionario della lingua italiana di Niccolò Tommaseo porta anche il nome di Bernardo Bellini (1792-1876), traduttore di scritti antichi (in questa veste fu impietosamente deriso da Leopardi), tipografo, poeta e drammaturgo, professore di letteratura latina e filologia greca nel Liceo di Cremona. Negli ultimi anni della sua vita, ormai completamente sordo, Bellini venne mandato dall’editore Pomba a soccorrere Tommaseo, ceco e pieno di acciacchi, nella stesura dello storico Dizionario che dunque, come la salute dei due ci mostra, si sviluppò in condizioni non proprio ottimali.
    A parte questa valida collaborazione, Bellini merita forse di essere ricordato per un bizzarro testo poetico costruito nel rispetto di una regola ferrea, testo che a buon titolo lo pone nell’albo dei precursori dell’ardite sperimentazioni dell’Oulipo-Oplepo (Opificio di Letteratura Potenziale).
    Vediamo di che si tratta. Nel 1865 Bellini pubblica L’inferno della tirannide, opera in cui depreca le tristi condizioni dell’Italia assoggettata all’Austria, scritta in occasione del sesto centenario della nascita di Dante. L’impresa del Bellini - definita «mostruosa» da Giampaolo Dossena – consiste nella stesura di XXXIV canti, uguali a quelli dell’Inferno dantesco, mantenendo le stesse rime impiegate dal «divino poeta». Naturalmente, cambiando il soggetto della cantica, cambiano anche i personaggi: così Caronte diventa Radetzky, Paolo e Francesca si trasformano in una coppia torturata dagli Austriaci, il conte Ugolino e l’arcivescovo Ruggieri vestono i panni di un re di Francia e del Borbone di Napoli, ecc. «Non lungi al valicar di nostra vita / Mi ritrovai per una landa oscura, / Sì che ogni lena in cor m’era smarrita»: è l’inizio dell’Inferno della tirannide. Identico procedimento Bellini usa ne Il Purgatorio d’Italia, pubblicato sempre nel 1865, dove i canti, al pari di quelli danteschi, sono XXXIII, e anche le rime sono le stesse di quelle di Dante.
Per Mario Praz l’operazione del Bellini, che merita «un posto d’onore nel museo del cattivo gusto letterario», è un «esercizio proprio da improvvisatore e da prestigiatore»; «dall’anello dantesco», scrive Praz, «il Bellini ha tolto la gemma per incastonarvi un culo di bottiglia». Nonostante questi severi giudizi, Praz, che per altro confessa di non aver visto Il Purgatorio d’Italia, afferma che questo rifacimento della Divina Commedia è «quasi elegante come un gioco di società» (Mario Praz, «Bernardo Bellini e un curioso poema sul Risorgimento», in Bellezza e bizzarria, Il Saggiatore, Milano, 1960, pp. 193-222).
    La vicenda merita un’ulteriore osservazione. Introducendo L’inferno della tirannide Bellini scrive che un professore di eloquenza italiana presso la Sorbona di Parigi, l’illustre Ozanam, ha chiamato il suo lavoro poetico «sforzo mirabile d’ingegno, per le superate difficoltà e per la spontaneità delle rime che paiono essere del tutto originali». Il giudizio, precisa Bellini, «non fu dato da lui in sul caldo della prima lettura, ma dopo due mesi che tenne presso di sé il manoscritto consegnatogli dall’autore nel 1849, mentr’egli [il Bellini, ndr] dimorò per alcun tempo a Parigi».
    Qui nasce un piccolo giallo. L’illustre professore citato da Bellini è Antoine-Frédéric Ozanam (1813-1853), laureato in lettere nel 1839 con una tesi sulla filosofia di Dante, fondatore della Società San Vincenzo de’ Paoli e nel 1997 beatificato da Giovanni Paolo II. Allora, viene da chiedersi, com’è possibile che Bellini abbia gabbato un insigne esperto di Dante, e futuro santo? Su questo punto Praz ipotizza che Bellini abbia sottoposto a Ozanam un testo non ancora definitivo dato che alcuni versi de L’inferno della tirannide fanno riferimento, per esempio, a Garibaldi e alla spedizione dei Mille, avvenuta nel 1860, dunque molto tempo dopo il 1849, anno in cui Bellini dice di aver consegnato, quand’era a Parigi, il suo manoscritto a Ozanam.
    Comunque sia, anche se il testo del Bellini fosse stato in fieri nel 1849, resta il fatto che le «rime obbligate» (se non tutte) dovevano essere per forza quelle della commedia dantesca, e rimane un mistero, sempre che il Bellini dica il vero, che Ozanam non si sia accorto dell’espediente definendo quelle rime «del tutto originali», a meno che l’illustre professore francese non abbia dato quel giudizio in modo ironico per prendersi gioco del Bellini, oppure, altra ipotesi, senza in realtà aver letto il manoscritto, prassi non disdegnata in certi casi dai critici letterari sia pure autorevoli.

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Questo testo è uscito su il Caffè illustrato, 62, settembre-ottobre 2011, p. 8.
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Una versione più ampia di questo testo è uscita su Domenica - Il Sole 24 Ore, 242, 2 settembre 2012, p. 28, per leggerla cliccate qui.


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