Paolo Albani
SUI MALTRATTAMENTI
DEI PROMESSI SPOSI



    Povero Manzoni! Ne ha dovuti subire di oltraggi, soprusi, angherie e manipolazioni per colpa di quel suo romanzone storico! Certo, con l’anagramma che si ritrova cucito addosso - «sa darmi sonnolenza» - c’era forse da aspettarselo…

    Ma veniamo senza indugi ai fatti, e cominciamo dall’anno 1965.
    In quell’anno esce a Como un libro che inizia così:
«Quel ramo del Lario [nome tradizionale del lago di Como, N.d.R.] che, tra due catene di monti e tutto seni e golfi, volge a sud, quasi a un tratto si restringe e, tra un’ampia costiera a manca e un promontorio a destra, prende corso di fiume; mutazione resa più evidente da un ponte che unisce le due rive lì ove termina il lago e l’Adda ricomincia, per riprendere poi nome di lago, ove esse riaprendosi, lasciano spaziare le acque in nuovi golfi e seni».
Il libro s’intitola Rifacimento dei Promessi Sposi, e il suo autore si chiama Carlo Cetti, classe 1884, autore eclettico e prolifico, la cui produzione comprende novelle, testi di critica letteraria, libri di poesia, politica, economia, filosofia morale, satira, storia, pedagogia, trattati di mnemonica. Che cosa ha fatto Cetti? Muovendo dalla teoria del «brevismo», da lui esposta ne La lingua si perfeziona e progredisce tendendo a brevità (Teoria del brevismo). Appendice: Dell'arte narrativa (1946), ha riscritto in ben 196 pagine una versione semplificata dell’intero romanzo di Manzoni. «La prima cosa cui, parlando o scrivendo, si deve badare,» sostiene Cetti «è la parsimonia sillabica, quindi, in ogni caso, alle parole, o locuzioni lunghe, si dovran preferir le brevi». Cetti riassume la sua teoria con questa «regola delle regole»: «è solo coll'usar, pur col debito riguardo a chiarezza, il minor numero possibile di sillabe, che si può conseguir la perfezion dello stile».
    Prima della sfiziosa performance quasi oulipiana del Cetti, da cui ci è sembrato utile partire, si erano dati altri sbeffeggiamenti letterari del povero Manzoni, più che altro in forma di parodia: basti ricordare Cletto Arrighi, pseudonimo per anagramma di Carlo Righetti, cui si deve il termine «scapigliatura», autore di un non finito opuscolo Gli sposi non promessi. Parafrasi a contrapposti dei «Promessi Sposi». Programma (1863), o la parodia scritta nel 1929 da Guido da Verona che, considerando Manzoni un letterato paternalista e dannoso, tolse dal romanzo tutti gli elementi considerati manieristici e futili e li sostituì con passaggi erotici e politici. Di oggi sono I promessi morsi (2011) di Anonimo Lombardo che porta questo significativo sottotitolo: «Storia gotica milanese del secolo XVII».
    Senza parlare poi delle continuazioni del romanzo manzoniano come I figli di Renzo Tramaglino e di Lucia Mandella, seguito ai «Promessi Sposi» di A. Manzoni (1872-1873) di Antonio Balbiani (lo cito solo per narcisismo perché contiene palesemente il mio cognome), che si beccò una ramanzina da Giosuè Carducci che lo accusò di essere «un manzoniano che tira quattro paghe per il lesso».
    Ma il povero Manzoni ne ha viste di peggio nella sua vita postuma. Come se non bastassero le parodie e le continuazioni, certi personaggi poco raccomandabili lo hanno trascinato a forza in quel campo minato dei giochi (o giochetti) di parole, dove lui, figurarsi!, che voleva risciacquare i panni (della lingua italiana) nell’Arno, non s’è mai trovato a suo agio.
    Quei mattacchioni della rivista di letteratura satirica il Caffè, capitanati dal patafisico Giambattista Vicari, nel 1973 ebbero la felice (sic!) idea di commemorare il Manzoni e se ne inventarono di tutti i colori: una lettera del Manzoni a favore dell’aborto volontario diretta al conte Lamberto Bicarbonati, un brano per mettere Lucia fra i cattivi, ridicole parodie del Ei fu, e dulcis in fundo un intervento di Cesare Landrini, screanzato, che, sulla base di un (falso) inedito proveniente dal Fondo Imbonati‑Malpighi, attribuiva a Alessandro Manzoni un gioco tipicamente oulipiano, il metodo s ± 1 che consiste nel prendere un testo e sostituirvi ogni parola che sta un posto prima o dopo quella considerata in un dato vocabolario. Soffrendo di una particolare forma di nevrosi intellettuale, conosciuta come "slittamento ansioso", forma di autismo particolarmente acuta in caratteri schizoidi, il grande scrittore lombardo si sarebbe divertito a sostituire nel famoso attacco: «Addio, monti sorgenti dall'acque, e elevati al cielo; cime ineguali, note a chi è cresciuto tra voi» le parole suggeritegli dall'inconscio con quelle successive e/o precedenti del vocabolario sortendo, sulla scia del metodo menzionato, l'effetto che segue: «Addipanare montiano / sorgentifero dall'acquacedrata / ed elevatore al cifosi / cimanalisi / Inelegante notizia a chiacchiera; cresima tozzo voglioso», oppure il seguente: «Addimostrare montessoriano sorella dallato a cotiledone d'elevatezza al ciellenista cilindroide inefficiente notocorda a chetone. Di crescione trabacca voialtri». Dio mio che orrore! Quale scempio! Povero Manzoni!
    L’hanno strapazzato in tutti i modi il romanzone del povero Manzoni, condito in tutte le salse possibili, alcuni furbacchioni della parola giocata, pensando magari di essere spiritosi e di cattivarsi un pubblico di enigmisti incalliti e sdentati e di perdigiorno dello svago che passano le loro domeniche a fare le parole crociate su una panchina al parco o da soli in cucina.
    C’è chi l’ha riscritto (soltanto alcuni paragrafi, grazie al cielo) il romanzone del povero Manzoni usando appena due consonanti («Il loco è l’aulica Licia… “Cala!”… è la Cilicia, coi lecci e le acacie… “Cala, cala!”… è cala eolica, coi cuculi e i luì, e uccelli colle alucce… “Cala!” Il loco è Lecco. “Ecco!” […]». Giuseppe Varaldo), lipogrammato senza la lettera “u” («Il ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra la doppia catena ininterrotta di monti, sempre a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e rientrare dei picchi, viene, come all’improvviso, a restringersi, e a prender corso e sembianza d’emissario, […]». Umberto Eco), alfabetizzato («Assatanato assedia angelicata! / Baluardeggian baffuti bruti bravi, / Che, congelando complice curato, / Dividono donzelli disperati. / Errano entrambi ed eccoli esiliati: […]. Adriana Castello), riassunto con sole parole alterne che iniziano con “p” e “s” («Piccolo sunto. Periodo: seicento. Personaggi significativi: presule succube, prepotenti sgherri (pure “Sfregiato”, per spiegarci), Perpetua, spietati potenti signorotti, popolani sopraffatti per scommessa, penalisti servili; poi suore per sbaglio, plebaglia, soldatesche, Prassede, sfiniti pestilenti, Santa Provvidenza, sarti… […]. Roberto Morraglia).
    E si potrebbe continuare ancora nell’elenco di questi massacri linguistici irriverenti e inconcludenti, oltre che aridi e a dirla tutta per niente spassosi. Ma ci fermiamo qui, per pudore.
    Fra tutti questi signori che hanno ridicolizzato, o almeno ci hanno provato, il romanzone del grande scrittore lombardo spicca per animosità antimanzoniana un certo Ermanno Cavazzoni, emiliano, autore fra l’altro di un romanzetto senza capo né coda intitolato Il poema dei lunatici, e siccome il libro ha avuto un blando successo di critica e di pubblico, lui, il Cavazzoni, s’è messo in testa di essere il nuovo Ariosto della letteratura mondiale, e ha cominciato a pontificare a destra e a manca in piccoli circoli di provincia e in teatrini off off facendosi paladino di una schiera minoritaria di poveri mentecatti, di derelitti e sfaccendati.
Ecco cos’ha fatto il nostro novello Ariosto della Padania. La sua bravata ai danni del povero Manzoni l’ha covata dentro una setta letteraria chiamata Opificio di Letteratura Potenziale, su cui non vale la pena spendere una parola di più. Il grande genio del Cavazzoni nel 2001 s’è inventato lo slittamento proverbiale che, secondo lui, ma non c'è da prenderlo sul serio, sarebbe il modo più rettilineo, economico e meccanizzabile di produrre, da un romanzo noto o in via d'usura, un secondo romanzo modernissimo.
    In cosa consiste questo meccanismo letterario chiamato slittamento proverbiale? Si fa presto a dirlo. Si prende l’incipit di un romanzo e si trascrive la prima parola che sia un sostantivo, un aggettivo, un verbo o un avverbio. Ad esempio si prenda l'inizio de I promessi sposi di Alessandro Manzoni: «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno...». A questo punto si considerano le singole parole: promessi, sposi, quel, ramo, ecc. e si cercano proverbi che iniziano con quelle medesime parole:

1. I promessi a due consorti, non s'illudan, sono già morti.
2. Sposi bagnati, sposi fortunati.
3. Quel che mangia un solo bue, più non basta se son due.
4. Ramo secco senza allori, spetta spesso agli scrittori.
E così via.

    Poi si riuniscono le parole poste alla fine di ogni proverbio (quelle in neretto) disponendole l’una dietro l’altra e otterremo in questo modo il secondo romanzo. Nell'esempio costruito da Cavazzoni viene fuori un romanzo intitolato Morti fortunati che parla di alcuni scrittori residenti in una colonia marina dove alternano lo scrivere a bagni e svaghi tipicamente da spiaggia.
    Tutta qui la grande genialata del Cavazzoni, il quale nel 2006, non pago di questa sterile fanfaronata, è tornato sul romanzone del povero Manzoni in un altro esercizio, elaborato sempre per conto di quella misconosciuta setta che abbiamo ricordata prima. Dovendosi cimentare sul tema delle Chimere, animali mostruosamente ibridi, Cavazzoni ha imbastito un «testo pluridiscorsivo e meta-metafisico», per usare la sua supponente terminologia, che poi alla fin fine è un «Centone alternato triplo», detto anche «Centone chimerico etrusco», formato da tre testi: 1. l’inizio dei Promessi Sposi, per l’appunto; 2. alcuni versi celeberrimi tratti dalla Divina Commedia di Dante Alighieri; 3. altri versi mediamente brevi, in genere di nove sillabe o meno, presi dalle Poesie di Giovanni Pascoli. Ne scaturisce - aberrazione delle aberrazioni! - un’unica frase aggrovigliata e lunga che, nelle intenzioni del neo-Ariosto reggiano, dovrebbe configurarsi come un unico flusso pensante: «Quel ramo del lago di Como o d’altra oppilazion che lega l’omo (e non odora l’aia tua d’amomo), che volge a mezzogiorno, si specchia, quasi per vedersi addorno (non t’amo… Ricordi quel giorno?) […]». A questa ridicola torta a tre strati il Cavazzoni, lunatico com’è, ha voluto metterci sopra una ciliegina, cioè il titolo: Manghiscoli, parola-macedonia che comprende, tagliati a dovere, i nomi dei tre autori utilizzati, titolo che si commenta da solo per quanto è astruso e impronunciabile.
    Ma non è tutto. Nel 2007 Cavazzoni torna all’attacco e s’inventa un’altra delle sue stramberie, la «dislocazione toponomastica», facendoci credere che a Napoli nel 1825 sarebbe uscito un romanzo intitolato prima Salvo e Luciella, poi I promessi sposi. Storia napoletana del secolo XVII, romanzo che presenterebbe sorprendenti analogie, a parte il paesaggio, la popolazione, i fenomeni sismici, camorristici e vulcanici, con il più famoso testo di Manzoni.
    L’inizio del presunto romanzo ambientato nel napoletano sarebbe questo:
«Quel fianco del monte Vesuvio, che volge a mezzanotte, tra due catene non interrotte di creste, tutte a spuntoni e a fratture, a seconda dell’ergersi e del franare di quelle, vien, quasi a un tratto, a restringersi, e a prender forma e aspetto di varco, tra un mammellone a destra, e un antico cratere dall’altra parte; […]».
    L’evidente antimanzonismo del Cavazzoni emerge in un altro suo scritterello intitolato Dell’uso dei numeri in letteratura (2008) dove caldeggia «una presenza più massiccia dei numeri in letteratura, anche in misura superiore alle parole, usando anche i numeri irreali di Robinson, il calcolo tensoriale, l’assiomatizzazione dei sentimenti, il calcolo differenziale e tutte le possibilità delle geometrie post-relativiste». A sostegno di questa tesi sconclusionata, Cavazzoni formula un esempio che, neanche a farlo apposta, si riferisce… beh, provate un po’ a indovinare a quale testo? «“Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno” (Promessi sposi)» afferma Cavazzoni «può essere espresso nei termini della geometria dei frattali, molto utile per descrivere sistemi caotici come il lago di Como, che possiede area finita ma bordo infinito, a segmentazione curva ricorsiva: il tutto può venire espresso in una formula numerica, ricorrendo eventualmente alla geometria topologica per precisare la frase “che volge a mezzogiorno”, e ad un algoritmo tensoriale per la “catena non interrotta di monti”, dove si vede che il Manzoni usando la parola generica “monte”, preferisce stare sul vago; ché allora era meglio, per essere ancora più romantici, accentuare l’effetto vaghezza e dire: “Quell’H2O volta a sud tra un innalzamento tettonico...” che avrei trovato emozionante».
    Prima di mettere mano a questo guazzabuglio velenosamente antimanzoniano Cavazzoni nel 1992 non s’era fatto scrupolo di raccontarci un’altra storia bislacca. La storia di un tale che, firmandosi con il nome del grande letterato italiano, aveva scritto un romanzo dal titolo superbo e pessimo: Le promesse spugne. Il romanzo di questo pseudo Manzoni narrava di due ubriaconi ai quali un prete, chiamato Don Abbondio, non voleva dare da bere. Anche il prete beveva, dal giorno in cui aveva ricevuto minacce da un etilista soprannominato il Griso, il quale a sua volta dipendeva gerarchicamente da un tale mai nominato per nome e cognome, un anonimo delinquente che riforniva di alcool tutto lo Stato e era lui stesso alcolizzato a tal punto che i medici gli avevano proibito di bere. L’anonimo mascalzone passava notti orribili in mezzo ai tormenti e alle allucinazioni, e ogni giorno all’alba giurava a se stesso di non toccare più la bottiglia. Poi compariva un cardinale che sembrava astemio, ma in realtà beveva anche lui, e forse perfino più di tutti gli altri. La storia si concludeva con un gran brindisi e con balli frenetici che alludevano forse a un’epidemia di delirium tremens nel Milanese.
    Inutile sottolineare che l’invenzione della figura di questo pseudo Manzoni, comunque la si guardi, è solo un pretesto sotto il quale si cela in modo inequivocabile l’intento ferocemente denigratorio portato avanti dallo pseudo Ariosto Cavazzoni nei confronti del vero Manzoni.
    Povero Manzoni, se avesse avuto il minimo sentore dei (mal)trattamenti meschini cui sarebbe andato incontro il suo romanzone storico fino ai nostri giorni, chissà se lo avrebbe mai scritto. E forse, con il senno di poi, come si è visto, avrebbe fatto bene a ripensarci e a desistere nell'impresa. Ma nessuno, ahimè, possiede la sfera di cristallo dentro la quale poter leggere il futuro.
    L'atroce dubbio su scrivere o non scrivere I Promessi Sposi è motivo fecondo di riflessione critica e fa venire in mente lo scrittore Giorgio Pavoni, citato da Achille Campanile in Agosto, moglie mia non ti conosco, che per molti anni fu impegnato nella stesura di un’opera monumentale intitolata: Se Manzoni avesse vissuto altri dieci anni, avrebbe per avventura rifatto ancora una volta i «Promessi Sposi»?

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Il testo è la "Postfazione" al libro di Aldo Merce Alessandro Manzoni, I PROMESSI SPOSI riletto senza se e senza ma, Edizioni Il Monogramma, Ravenna,  2011, stampato in  venticinque esemplari con numeri arabi da 1 a 25 e venticinque esemplari fuori commercio con lettere dell'alfabeto dalla A alla Z per collaboratori e sottoscrittori, copertina di Aldo Spinelli, a mano reca la scritta dell'autore: "si prega di sciuparlo".
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Una recensione al libro di Aldo Merce è uscita sulla rivista Biblioteca di via Senato, per leggerla cliccate qui.

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