Paolo Albani
PIGHETTI E LA FILOSOFIA PER SÉ



   Il pensiero filosofico di Guido Pighetti (1890?-?) [Roma 1889-1964, ndr], esposto in vari libri, si può riassumere in questa formula concisa: la realtà, eterna e infinita, è lo spirito che conosce se stesso. In questo si risolve alla fine «ogni problema d’ogni filosofia vecchia e nuova».

    La mia vita, scrive Pighetti nell’incipit di Saggio filosofico (Tipi Nicola De Arcangelis, Casalbordino, 1907, un opuscolo di 14 pagine presente fra i libri di mattoidi raccolti verso la fine del secolo XIX dal medico alienista Giuseppe Amadei e conservati presso la Biblioteca Classense di Ravenna), si spiega in un solo modo: con il conoscere, che a sua volta si risolve solo con il conoscere se stessi. «Se io non conoscessi», afferma Pighetti, «né penserei, né direi, né farei, dato che per pensare, per dire, per fare, occorre ch’io conosca me stesso, che per conoscere me stesso occorre ch’io riconosca me stesso nell’altro, che per riconoscere me stesso nell’altro, occorre ch’io conosca me stesso e l’altro».

      Nell’introduzione a Saggio filosofico. Abbozzo di introduzione alla Filosofia dello Spirito e Filosofia della Pratica (Tip. C. Goldaniga, Soncino, 1910?), Pighetti ammette di aver letto e studiato poco le opere filosofiche «un po’ per non esser mai stato in condizione di studio tranquillo», un po’ per l’ingenuo timore di perdere, con le letture, la freschezza e anche la selvatichezza del proprio pensiero.

     La Filosofia dello Spirito pighettiana (anche in Considerazioni sul diritto e sul suo fondamento filosofico, 1929) pone al centro della sua riflessione la realtà, ovvero ciò che esiste, non eccettuati noi stessi che la investighiamo: questo è il problema filosofico fondamentale, dato che la filosofia è nient’altro secondo il comune giudizio se non la scienza della realtà. Noi siamo parte della realtà e siamo anche condizione della conoscenza della realtà fuori di noi. Noi conosciamo la realtà fuori di noi se conosciamo la realtà che è in noi, quella che possiamo immediatamente intuire. Come avviene questa intuizione? Con l’io che si traduce necessariamente in una affermazione di conoscenza e cioè: io conosco me stesso. La formula: Noi conosciamo noi stessi o lo spirito conosce se stesso rappresenta il «caposaldo incrollabile» della filosofia pighettiana. Lo spirito, argomenta Pighetti, dopo numerosi e illusori saggi di creazione naturale (vegetale e animale), produce la sublime cosa che è il sesso. Oltre che conoscere se stesso l’uomo è in grado di esaminare se stesso nella sua attività conoscitrice; dunque lo spirito della forma umana conosce se stesso conoscente se stesso. La vita dello spirito, tutt’uno con il corpo, tende a conquistare la sua maggiore complessità e potenza nel cervello che è l’organo più importante del corpo. Nella penombra dell’avvenire remoto, profetizza Pighetti, scorgiamo «una razza umana di figura prevalentemente… cerebrale». Se con il sesso è avvenuta la nascita dell’intelligenza umana, in quanto con il sesso si sono prodotte le condizioni favorevoli alla contrapposizione formale dell’io e dell’altro, probabilmente con il sesso si compirà il cammino della vita umana che è la più alta vita spirituale. Nel futuro il riconoscimento dell’io nell’altro, originatosi come si è visto nel contrasto sessuale di due individui, potrà indurre un’attenuazione delle differenze tra individuo e individuo, tendenza già riscontrabile, fa notare Pighetti, nello sforzo che la donna compie di mascolinizzarsi e in quello dell’uomo di assumere forme e atteggiamenti femminili. «Non mi illudo», confessa Pighetti, «d’aver scoperto l’America: credo bensì d’aver dato esempio di un ottimo metodo di trattazione filosofica che a parer mio dovrà trionfare».

    Dopo l’avvento di Mussolini Pighetti pubblica alcuni testi in cui esalta il regime fascista (valga per tutti Il Duce. Prima traccia di uno studio su Benito Mussolini. Pagine antiche e recenti edite e inedite, 1939). Nel volume Colloqui e soliloqui (Stab. Tip. G.B. Marsano, Genova, 1939), Pighetti tratteggia quella che definisce la sua «concezione della vita in ordine al tempo mussoliniano». A proposito del rapporto uomo-donna sostiene che le donne, «forme di vita per sé stanti e per sé considerabili, nella composizione sociale», sono degli accessori rispetto agli uomini; come tali possono benissimo essere avvicinate alle cravatte e a tutto ciò che nella vita ci accompagna per costituire un motivo valido di esistenza: «Con una bella cravatta indosso non è escluso che qualcuno provi la stessa impressione che con una bella donna al fianco». Più avanti scrive che compito dell’uomo è dare un minimo di senso di gerarchia alla donna, irrazionale al massimo e istintiva per eccellenza, quindi antigerarchica. L’uomo deve farla comparire decorosamente e insieme metterla in condizione di non nuocere. Le scelte della donna sono in genere sessuali o di vanità, sta all’uomo darle una sensibilità notevole, sia pure provvisoria, verso una verità che a lei per natura non è accessibile. A differenza dell’uomo, che si logora nelle vicende d’amore e per il quale esiste un passato sentimentale che gli pesa, la donna si avvicina ogni volta al banchetto dell’amore con il cuore di una quindicenne. Mentre un uomo tra due donne è sempre un po’ ridicolo, non è così per una donna tra due uomini, dato che essa è perfettamente a posto quando è desiderata. Riguardo alla procacità Pighetti osserva che l’abbondanza della carne è nella donna molto spesso segno di sensibilità attutita e suscita in quel «cerebrale sensuale che è l’uomo» gli appetiti più accesi; la donna formosa, giudicabile frigida o quasi, è ragione di grande allegria per il maschio che la desidera.

     Sempre in Colloqui e soliloqui Pighetti dipinge lo iettatore come un essere borioso e infecondo che cerca di trascinare gli altri nel suo gorgo, volendo annullare così il proprio male in un male più vasto; infine se la prende con le persone che non sanno parlare cinque minuti su un qualsiasi argomento senza abbandonarsi a una frenesia di citazioni.


Domenica de Il Sole 24 Ore, 115, 28 aprile 2013, p. 36.
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