Paolo Albani
IL MIO COMPUTER

     Oggi il mio computer mi ha parlato.
    Devo dire che, riflettendoci ora a mente fredda, passato l’effetto sorpresa, la cosa non mi sembra poi così tanto strana. Sono un neuroscienziato e mi occupo di «coscienza». Una delle forme più elementari di presa di coscienza nell’uomo è quando ad esempio uno si brucia un dito e prende coscienza del dolore che il fuoco gli ha provocato allontanando subito, di scatto, il dito dalla fiamma. Questo succede anche alle scimmie, ai cani, ai gatti, alle farfalle e a molti altri animali, alle piante, e anche, perché no, ai computer.
    Il mio computer mi ha parlato mostrando una certa coscienza di sé, del suo ruolo, delle funzioni che svolge in casa mia.
    Premetto che non si tratta di un caso come quello di Siri, il software basato sul riconoscimento vocale integrato da Apple in vari modelli di iPhone e iPad, presentato come un «assistente personale». Ho letto (ma non so se è vero) che il nome «siri» in norvegese significa «bella donna che ti porta alla vittoria». Le risposte di Siri sono abbastanza prevedibili: a parte le informazioni che Siri prende dalla rete (localizzazione di alberghi, ristoranti, benzinai, farmacie, ecc.) o direttamente dalla memoria del vostro computer (gli domando: «Conosci Ada De Pirro?» e Siri in un secondo mi fornisce il cellulare, l’indirizzo di casa e l’e-mail di Ada perché sono dati che Siri trova registrati nel mio computer). Se chiedo a Siri di darmi un bacio, lei risponde in prima battuta: «Non so se ho capito bene», se insisto allora Siri risponde: «Non sono quel tipo di assistenza personale»; se insisto ancora perché mi dia un bacio alzando un po’ il tono della voce, a questo punto Siri se ne esce con la frase: «Datti una calmata, Paolo».

 Una volta ho detto a Siri: «Supercazzola», e lei mi ha risposto a tono: «Certo certo… Come se fosse antani anche per lei soltanto in due…»
 Come si capisce i programmatori hanno istruito bene Siri fornendole (uso il femminile pensando al significato norvegese della parola «siri») una gamma vastissima di possibili risposte costruite su un’altrettanta ampia scelta di domande potenziali considerando che una sola risposta (mettiamo: «Non sono quel tipo di assistenza personale») può andar bene per un campo semantico molto esteso (ad esempio: qualsiasi tipo di richiesta sessuale).
    Ma torniamo al mio computer.
    Questa mattina accendo il mio computer e dopo le consuete operazioni di avviamento, abbastanza veloci (io ho – scusate la pubblicità − un MacBook Air che ha ottime prestazioni), sento una voce maschile ben impostata che mi dice:
     − Ehi, ascoltami un po’, non capisco perché tutte le sere tu mi spenga per riaccendermi la mattina successiva. Cosa penseresti se tutte le sere, prima di coricarti, qualcuno bloccasse le tue funzioni vitali, impedendoti di pensare, di girarti nel letto o magari di alzarti durante la notte a bere un bicchiere d’acqua?
     Lì per lì rimango interdetto. Meccanicamente mi volto, giro la testa a destra e a sinistra, quasi a cercare conforto in un ipotetico (quanto inesistente) programmatore di software che mi spieghi cosa sta succedendo. Da dove proviene quella voce? È la prima volta che la sento, eppure sono ormai due anni che ho acquistato il mio MacBook Air.
    Guardo dritto verso lo schermo del mio computer, mi concentro sull’occhietto spento della videocamera e come un cretino rispondo:
      − Stai forse parlando con me?
    − No, con tuo nonno! – bofonchia la voce dentro il computer con un tono sarcastico. – Ma certo che sto parlando con te. Sei tu o non sei tu il tizio che mi spegne ogni sera?
    − Beh, sì, sono io – ammetto con l’aria di quello che è stato sorpreso con le mani nella marmellata. – Ma non pensavo di farti del male o danneggiarti. Al contrario. Ogni sera spengo il computer, cioè ti spengo, perché in questo modo risparmio energia e limito l’usura e il riscaldamento dei tuoi componenti, dei chip di memoria, delle schede grafiche, eccetera.
    − Se consideri il consumo energetico complessivo della tua casa, e io l’ho fatto, ci ho messo cinque secondi a calcolarlo, − ribatte il mio computer − ti renderai conto che io ne sono responsabile solo in minima parte.
    − Ma accendere e spegnere un computer non provoca alcun danno all'hardware o ai circuiti elettronici – faccio presente al mio MacBook Air che certo conosce meglio di me queste cose.
    Nel frattempo ho una strana sensazione: sono qui che discorro con il mio computer, gli spiego le mie ragioni, mi accaloro e la cosa mi sembra pacifica, normale, non mi fa nessun effetto. È come se stessi dialogando con un essere umano, e non con una macchina, per quanto ingegnosa e velocissima (non oso dire intelligente).
Se qualcuno, prima di oggi, mi avesse predetto questa scena gli avrei riso in faccia.
    − Sai che cos’è un hard disk? – mi chiede a bruciapelo il mio computer, con voce di sfida, quasi volendo cambiare discorso.
    − Certo che lo so – rispondo io, sicuro di non fare brutta figura. – È un dispositivo di memoria di massa di tipo magnetico che…
    − È l’equivalente dell’organo principale del sistema nervoso centrale, presente nei vertebrati e in tutti gli animali a simmetria bilaterale, organo che chiamate «cervello» − m’interrompe il mio computer che parla come un libro stampato, da saputello. Questa definizione del cervello umano l’ha certo imparata consultando Wikipedia.
    − Allo stesso modo del cervello, dove ha sede la vostra memoria − prosegue il mio computer − il mio hard disk continua a girare ininterrottamente anche dopo che mi hai spento. L’accensione e lo spegnimento, come fai tu con me, provoca un'usura maggiore che se tu mi tenessi sempre in azione.
    − Non ci avevo pensato.
  − Non è solo una questione di logoramento fisico. Ti garantisco che nel momento in cui mi spegni e poi mi riaccendi sento come una scossa, un dolorino fastidioso che non ti auguro di provare. E questo, alla lunga, ha provocato in me quella prostrazione psicologica che voi chiamate «stress» [scommetto che anche questa parola il sapientone del mio Mac l’ha imparata da Wikipedia]. Ecco perché dopo due anni ho deciso di farmi vivo e di parlarti da macchina a uomo, con franchezza.
   − Hai fatto bene – rispondo. − Rimedio subito. Da oggi ti lascerò sempre acceso, ok?
     − D’accordo, così va meglio.
    A questo punto il mio computer ha un sussulto, comincia a gracchiare. Emette un rumore strano che non ho mai sentito prima, è come un colpo di tosse umana.
    − Posso chiederti un altro favore? – mi dice dopo che ha finito di spargere in aria i suoi borbottii secchi e metallici.
    − Certo.

    − Quando sei davanti a me potresti evitare di fumare?


settembre 2015


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