Paolo Albani
SE CI SI AMMALA
DELLA PAURA DI AMMALARSI


 

    Nelle lettere ai familiari Alessandro Manzoni confida di trovarsi in uno stato di depressione morale, di profonda indolenza dello spirito. Va soggetto a «fatica al capo», soffre di incomodi di digestione; dà spesso in escandescenze, piange come un bambino per cose che lo esasperano. In preda a gravi commozioni e dolori sente il bisogno di mangiare di più. È soggetto a rilassamenti d’attenzione, assenze. Lo testimoniano vari episodi. Per una nipotina fa l’analisi logica di un periodo dei Promessi Sposi che la maestra giudica appena soddisfacente. Una volta, conversando con un amico, menziona una frase che gli pare bella, ma non ricorda dove l’ha trovata. «Sfido – gli dice l’amico – è vostra!». Negli ultimi anni, Manzoni afferma desolato: «Temo che mi si indebolisca l’intelligenza, mi sorprendo a pronunciare parole senza senso». A chi gli fa visita, chiede: «Siete venuto a vedere che divento imbecille?». Gli succede di scambiare le persone, di non accorgersi di aver messo abiti non suoi. Dichiara: «Sono assolutamente inetto». Si commisera definendosi «un balbettone», «un uomo impacciato nel cervello e nella lingua».


                

Glenn Glould (1932-1982)



    Insomma siamo di fronte a un evidente caso di ipocondria, in estrema sintesi un disturbo dell’ansia che ingenera una paura morbosa della malattia e della morte. Nel saggio Del non fingersi malato, Montaigne racconta storie di persone diventate cieche, storpie o gobbe per aver finto di avere quei mali. Il richiamo a Montaigne compare in Vite di nove ipocondriaci eccellenti di Brian Dillon, editor della rivista «Cabinet», professore di Critical Writing al Royal College of Art di Londra.

      Il libro di Dillon non è una storia dell’ipocondria, ma la biografia di nove personaggi famosi, redatta avvalendosi di lettere, diari, autobiografie, interviste e testimonianze (ne sarebbero potuti figurare altri, precisa Dillon, ad esempio Edgar Allan Poe, Fëdor Dostoevskij, James Joyce). Nella scelta non ha usato un criterio preciso, si è concentrato sulle storie più convincenti per le sue doti scrittorie. Ne sono nati nove racconti che scorrono in uno stile letterario limpido e avvincente, da narratore accorto.

      L’ipotesi più ambiziosa, per quanto rischiosa, dichiarata apertamente da Dillon, è che esista un collegamento intimo tra l’ansia da malattia e il lavoro intellettuale o creativo.

      Chi sono i nove personaggi eccellenti? Si parte da James Boswell (1740-1795), scrittore e giurista scozzese, che fin da giovane soffre di malinconia con intensità straziante, caparbio pianificatore di programmi destinati regolarmente a fallire. La sua paura è diventare informe, friabile, liquido. C’è poi la scrittrice Charlotte Brontë (1816-1855), un «soggettino apprensivo» come la Jane Eyre del suo omonimo romanzo. Di palpitazioni al cuore, mal di testa, sconvolgimenti gastrici insieme a una vaga sensazione di turbamento fisico, legata all’idea che qualcosa non va, si lamenta Charles Darwin (1809-1882), che descrive se stesso come un apatico, un inquieto, ma anche spento, stupido e fiacco. Di Florence Nightingale (1820-1910), un’infermiera britannica fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna in quanto utilizza per prima la statistica, sappiamo che, durante la Guerra di Crimea, contrae la cosiddetta «febbre mediterranea», causandole una serie di malesseri fra cui nervosismo, depressione, allucinazioni, e più in generale una sensazione di fallimento e d’impotenza. Alice James (1848-1892), sorella di Henry, scrittore, e William, psicologo e filosofo, per tutta la vita è preda di gravi episodi “esplosivi” da lei definiti «fare la pazza», meticolosamente documentati nel suo diario. Le stranezze che caratterizzano la vita di Marcel Proust (1871-1922) sono abbastanza note, fra queste lo spavento verso i suoni e gli odori, come pure quelle di Andy Warhol (1928-1987), ossessionato dal decadimento fisico, o del pianista e compositore Glenn Gloud (1932-1982) che detesta essere toccato. Ma nessuna è paragonabile alle sofferenze patite da Daniel Paul Schreber (1842-1911), presidente della terza camera della Corte d’appello di Dresda, autore di Memorie di un malato di nervi (1903). Un caso studiato anche da Freud. La principale paura di Schreber, che sostiene di avere 240 monaci benedettini nel suo cranio, è trasformarsi in donna.

In conclusione, non riportato da Dillon, mi piace spendere una parola su un altro illustre ipocondriaco: Carlo Dossi, una delle divinità segrete della letteratura italiana (Giorgio Manganelli). In una delle Note azzurre, la 2368, Dossi accenna alla propria pazzia che permea i suoi scritti e le sue azioni; a ogni buon conto, aggiunge, un ramicello di pazzia è sempre desiderabile, concludendo: «Non ho io forse in me stesso una popolazione di Ii, uno diverso dall’altro?».

  Abbiamo detto che l’ipocondria è fonte di paure. Fra quelle elencate da Roberto Bolaño in 2666, nel capitolo «La parte dei delitti», la più intrigante, a mio parere, è la fobofobia, ovvero la paura delle proprie paure (e chi non ce l’ha).

 


Brian Dillon

VITE DI NOVE IPOCONDRIACI ECCELLENTI

traduzione di Alessandra Castellazzi

il Saggiatore, Milano, 2020, pagg. 332, € 24

 


Questa è la versione originale del mio articolo mandata al giornale.

La versione effettivamente uscita è nel pdf qui allegato, cliccate qui.


Domenica - Il Sole 24 Ore, 17 gennaio 2021, p. XI.


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