Paolo Albani
LE PAROLE NON USATE

           


            6 settembre

            Leggo su un settimanale una breve recensione a Di carne e di nulla di David Foster Wallace e vedo che il recensore usa la parola «urticante». Io so cosa vuol dire «urticante», o almeno credo: significa «corrosivo», «pungente», «che crea prurito come l’ortica», ha l’aria di un participio presente del verbo «urticare», che forse non esiste, poi controllerò sul vocabolario, ora non ho voglia di alzarmi e andare a prendere lo Zingarelli. All’inizio del suo pezzo il recensore scrive che Wallace considerava «pulcritudine», parola dotta che significa «bellezza», una delle parole più brutte della lingua. Questa volta vinco la mia pigrizia, mi alzo e vado a controllare se «pulcritudine» esiste nello Zingarelli; sì c’è, con una crocetta davanti che indica che si tratta di un arcaismo.

            A volte pensiamo di conoscere il significato di una parola, ma non sempre è così; un famoso (e fumoso) psicanalista, fra gli altri, ha detto che «noi non parliamo il linguaggio, ma siamo parlati dal linguaggio». Questa frase mi è rimasta impressa perché ha un che di paradossale che la rende simpaticamente inspiegabile, quasi presupponesse che il linguaggio è uno strumento esterno all’uomo, prodotto a sua insaputa.

            Tuttavia il problema non è questo, non riguarda la sfera della semantica. Il significato non c’entra. Leggendo quella recensione, mi è venuto in mente che, nelle conversazioni e nei miei scritti, io non ho mai usato la parola «urticante» che pure mi sembra bella, ha un suono vibrante, suggestivo, quasi un trillo linguistico grazie a quella «r» all’inizio di «urti». Appena ne avrò l’occasione voglio usarla, infilarla da qualche parte: «Il suo modo di fare mi sembrava particolarmente urticante», «È un verso quanto mai urticante».

            Pensando alla parola «urticante» rifletto su quante parole non fanno parte del mio lessico abituale. Di sicuro è un numero esorbitante. Tempo fa, mentre rileggevo Il naso di Gogol’, tradotto da Tommaso Landolfi (era la prima volta che lo leggevo nella traduzione landolfiana), all’improvviso mi sono imbattuto nella parola «princisbecco» che nell’espressione «rimanere di princisbecco» significa «di stucco». Che meraviglia! Fantastica! La ignoravo completamente, ma appena l’ho sentita mi ha lasciato davvero di stucco, a bocca aperta. E mi è venuto di associare quella strana parola a un uccello dall’aspetto regale, tipo aquila con un becco giallo pronunciato e rilucente. In realtà, come spiega lo Zingarelli, «princisbecco» è una «lega di rame, stagno e zinco, simile d’aspetto all’oro»; la parola deriva da Charles Pinchbeck (1670-1732), inventore di questa lega usata in oreficeria, orologeria e per i fili da ricamo; lo stupore nasce dalla scoperta che l’oro, impiegato da orefici disonesti, è falso.

Eppure avrei dovuto ricordare che Collodi ne Le avventure di Pinocchio scrive: «Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase di princisbecco e voleva protestare». Ma ancora prima nel terzo atto della Locandiera Goldoni fa dire a un suo personaggio, il Marchese: «Bella questa boccetta! Che sia d’oro o di princisbech? Eh, sarà di princisbech: se fosse d’oro non la lascerebbero qui». Nella postfazione a Le più belle pagine di Tommaso Landolfi scelte da Italo Calvino, quest’ultimo osserva che se mai ha avuto qualche merito agli occhi di Landolfi è perché in un racconto (Calvino non lo dice, ma si tratta de Le cosmicomiche) ha usato la parola «pesceduovo», scritta senza lo spazio né l’apostrofo, che è il giusto vocabolo italiano, dice Calvino, per omelette. Di sfuggita ricordo che il pesce d’uovo, scritto questa volta con lo spazio e l’apostrofo, è uno dei cibi più spesso citati nel Libro mio di Pontormo.

            Nemmeno «pesceduovo», che è bella, anche se un po’ troppo letteraria per i miei gusti, ho mai usato, sebbene mi sarà successo di parlare di omelette chissà quante volte, per esempio a Macinaggio sul dito della Corsica quando da giovane, durante un viaggio in barca con alcuni amici, mi sono fatto delle grandi abbuffate di omelette, che lì sono speciali, e mentre eravamo seduti in un caffè davanti al porto di Macinaggio avrei potuto dire, se quella parola mi fosse stata familiare, con naturalezza: «Stasera voglio mangiarmi un bel pesceduovo».

 

            11 ottobre

            A parte «urticante», «princisbecco» e «pesceduovo», se penso a quante altre parole, interessanti all’orecchio e non solo, avrei potuto usare e però non ho mai usato durante la mia vita, provo un certo disappunto, un senso di frustrazione perché ho maturato l’idea, forse esagerata, che a ogni parola mancante dal mio lessico corrisponda un frammento di realtà che mi sfugge, che resta fuori dalla mia comprensione. Nella ristrettezza del mio personale vocabolario intravedo in modo concreto, percepisco i limiti della mia capacità di conoscere il mondo, di averne un’idea meno approssimata. Faccio un banale esempio: come posso pretendere di capire il funzionamento di una barca a vela se non so il significato delle parole «cazzame», «balumina», «livarda», «struzza», «ralinga», «gratile», «bugna», «batticoffa», «gherone», «testiera», «meolo», che pure trovo bellissime semplicemente come suoni, e tante altre? Conoscere il significato di queste parole è la chiave indispensabile per approssimarsi a quel ritaglio di mondo reale rappresentato da tutto ciò che ruota intorno alla barca a vela.

            Mi lascia sgomento anche pensare (e lo faccio sempre più spesso da qualche tempo a questa parte) che le parole che ignoro, che non conosco siano in termini numerici molte di più, immensamente di più di quelle che conosco. Non c’è paragone. È un’amara presa di coscienza, per quanto rasenti l’ovvietà.

            C’è chi ha una memoria formidabile e si ricorda più parole di altri, ma il fatto di conoscere e usare un numero limitato di parole dipende in primo luogo dalle abitudini linguistiche familiari, dagli insegnanti che ci hanno formato, dal tipo di letture fatte, dai luoghi frequentati, dalle amicizie coltivate, insomma da una serie di fattori socio-culturali. Non è solo una questione di fosforo nel cervello.

            La verità è che ho bisogno di arricchire il mio parco-parole, di rinnovarlo, pena l’atrofia linguistica. «C’è tanto italiano inutilizzato» ammoniva Giorgio Manganelli.

 

            3 dicembre

            Da alcune settimane ho cominciato a lavorare alla stesura di un Dizionario a uso personale delle parole che non ho mai adoperato. Quando l’avrò finito (immagino ci vorrà qualche annetto) voglio proporlo alla Zanichelli, vediamo cosa mi dicono. Per ora sono arrivato alla parola: «bansìgo» [vc. genovese da bansa ‘bilancia’ * 1970] s. m. (pl. –ghi) (mar.) Tavola di legno o imbracatura tessile sostenuta da cime che serve da sedile per lavorare sospesi all’albero o fuori bordo.

           

ottobre 2013

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Questo testo è uscito sul n. 74/75, settembre-dicembre 2013, de il Caffè illustrato.

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