Paolo Albani
LE PERSONE SOLE

Sulla base della mia esperienza, per quanto limitata e di conseguenza scientificamente non attendibile, ho notato – ed è un fenomeno curioso - che le persone sole hanno dei tratti in comune, dei modi di fare simili, insomma, voglio dire, hanno delle caratteristiche che ne fanno un gruppo omogeneo, ben definito e a tal punto riconoscibile che quando uno le incontra, le persone di quel gruppo, non esita a dire: “Questa è una persona sola”. Almeno a me succede così.
Faccio alcuni esempi tanto per intenderci, i primi che mi vengo in mente, senz’alcuna pretesa di compiutezza.
In genere ho notato che le persone sole:

- sorridono per strada agli sconosciuti;
- camminano con l’andatura tipica di chi si dirige verso una fermata dell’autobus e sa che
l’autobus è regolarmente in ritardo;
- chiacchierano molto, anche in assenza di un interlocutore;
- si divertono con niente, il che significa che perdono tempo con estrema facilità;
- danno l’impressione di calzare scarpe di almeno un numero sopra o sotto quelle giuste;
- portano i capelli quasi sempre scarmigliati, giacché non dovendo rispondere a nessuno del
loro aspetto non si pettinano mai prima di uscire di casa;
- fumano distrattamente;
- sono inclini a non ascoltare, stimando di trovarsi ogni volta dalla parte giusta;
- vogliono far credere di essere persone indaffarate, ma s’intuisce dallo sguardo che
attendono ai loro affari in modo svogliato e non convinto;
- sono collezionisti di oggetti assurdi, di poco conto;
- se hanno dei cani, sono paurosamente e banalmente identici ai loro padroni;
- si lamentano per delle piccolezze, delle inezie;
- hanno una certa propensione al rancore, e non lo nascondono affatto;
- odiano i paragoni, perché li ritengono impietosi e svianti;
- in trattoria si mettono abitualmente in tavoli vicini all’uscita o alla cucina;
- in ogni cosa che fanno mostrano una spiccata tendenza verso la metodicità.

L’estate scorsa, in treno, ho conosciuto una professoressa di greco che insegna a Imola. La donna mi ha raccontato che per molti anni, essendo sola al mondo, ha passato ore e ore, senza neppure accorgersene, a chiacchierare con il suo canarino, di quelli dal piumaggio interamente giallo, a cui ogni tanto recitava in lingua originale le poesie di Archiloco, di Semonide e di altri poeti greci.

Quando il canarino è morto, per non soffrire di nuovo, la professoressa lo ha rimpiazzato con uno di peluche dello stesso colore, comprato all’Ikea.
Malgrado fosse di peluche, la professoressa ha messo il canarino dell’Ikea dentro una gabbia incollandogli le zampine artificiali sulla piccola canna di bambù che gli faceva da trespolo e ha continuato a dargli da mangiare (spighe di panico, miglio, uova, larve di camola, frutta, ecc.), a cambiargli l’acqua nella vaschetta due volte la settimana e a parlargli, anche in greco antico, come faceva con l’altro, il canarino vero.
Quando le è andata a fuoco la cucina, perché aveva lasciato il ferro da stiro acceso, il canarino di peluche è bruciato insieme alla mobilia e alle tende. Di fronte ai resti carbonizzati dell’animaletto finto, la professoressa ha provato un grande dolore e non ha voluto più saperne di canarini, neppure di peluche.



Questo testo è uscito con il titolo "La vita avventurosa delle persone sole" anche sul numero 54 de il Caffè illustrato, maggio-giugno 2010, pp. 6-7.
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