Paolo Albani
LA REAZIONE

[ATTENZIONE: LA LETTURA DI QUESTO RACCONTO
POTREBBE URTARE LA VOSTRA SENSIBILITÀ]


    Per farvi capire come sono arrivato al punto (critico) in cui sono arrivato è bene che sappiate alcune cose, prima di giudicarmi male.
    Per inquadrare in tutta la sua drammaticità la situazione che sto vivendo, vi metto subito al corrente del fatto che Sofia, mia moglie, è vegana; i miei due figli, Jennifer di vent’anni e Mauro di sedici, sono vegani (istigati fin da piccoli da mia moglie); mia suocera, Michelle, originaria di San José in California, è vegana; mio suocero, Alfonso, che purtroppo non c’è più, era anche lui vegano (i miei suoceri hanno inculcato il germe del veganismo alla loro unica figlia, Sofia, che poi, come ho detto, è mia moglie).
    Insomma in famiglia, e non solo, sono circondato da vegani che, vi garantisco, è come vivere all’interno di una setta che adora un dio salvifico e onnipotente. Ma non è tutto. Dato che mia moglie, i miei figli e mia suocera, che da quando è rimasta vedova abita in casa nostra, frequentano solo vegani, il termine «circondato» è riduttivo, non rende bene l’idea, più corretto e realistico sarebbe usare un altro participio passato e cioè «oppresso», «sopraffatto», «soggiogato» dai vegani.
    Con questo, sia ben chiaro, non voglio sostenere che i vegani della mia famiglia e i loro numerosi amici e conoscenti siano gente fanatica, intollerante, dei fondamentalisti in materia di alimentazione. Al contrario, dovendoli inquadrare, direi che sono brave persone, rispettose delle idee altrui, dei volterriani convinti (anche se molti di loro, credo, non sappiano nemmeno chi è Voltaire). In apparenza i membri della tribù vegana allargata con cui ho a che fare quasi tutti i giorni non mi fanno pesare la mia condizione di non vegano, di persona cui piace la carne, in particolare quella di maiale, le salsicce, gli affettati e le uova che escono dal culo delle galline e tante altre prelibatezze che i vegani evitano come la peste; no, loro sono persone comprensive, non violente, ragionevoli; però, ecco dove sta il punto dolente, quando siamo a tavola mi accorgo che mi guardano strano, fanno certi sorrisini di compatimento nei miei confronti, scuotano la testa in modo desolato, un gesto che significa, anche se, per il quieto vivere, si guardano bene dal dirtelo in faccia: «Ma come fai a mangiare quella roba lì?». Fra loro vedo che c’è una sorta d’intesa, una complicità che, sebbene non studiata in modo intenzionale, finisce per escluderti, per emarginarti, per farti sentire un diverso, un extraterrestre.
    Quando l’ho sposata ero perfettamente a conoscenza che Sofia era vegana, ma non pensavo che questo fosse un problema. Sofia ha molte qualità che la rendono una donna interessante. Frequentandola, prima del matrimonio, grazie a lei mi sono fatto una minima cultura sul veganismo, ho appreso che è un movimento filosofico basato su uno stile di vita che ha come idea-guida, rispettabilissima per carità, il rifiuto di ogni forma di sfruttamento degli animali (per alimentazione, abbigliamento, spettacolo e ogni altro scopo). Uno dei pionieri del veganismo, Donald Watson (1910-2005), che Dio lo abbia in gloria, organizzò nel novembre del 1944 a Londra una riunione di sei «vegetariani non consumatori di latticini», in cui venne deciso di costituire la Vegan Society, di eleggere presidente lo stesso Watson e di adottare come definizione il termine vegan, contrazione di vegetarian.
    Io non ho niente, lo giuro, contro i vegani, contro il fatto che mia moglie, i miei figli, mia suocera e tutti i loro amici vegani si privino volontariamente di tante cose buone a tavola, sono affari loro, ognuno è libero di mangiare quello che vuole, ci mancherebbe altro.
    Dopo un po’ di tempo, tuttavia, quei sorrisini provocatori, quelle espressioni schifate, quegli sguardi severi su di me mentre rosicchio, in genere l’unico della compagnia, un bel pezzetto di rosticciana alla brace o l’osso di una deliziosa e sanguigna bistecca alla fiorentina, hanno cominciato a stufarmi e alla fine, complice forse un periodo non proprio esaltante che sto attraversando, ho perso la pazienza e ho reagito, d’istinto. Ho avuto una reazione che non mi sarei mai aspettato, forse esagerata, è possibile, forse dettata più da un atteggiamento difensivo che da una spinta idealistica, una reazione di cui al momento, se devo essere sincero, non mi pento affatto.
    Ho abbracciato la causa del cannibalismo. Non sono l’unico nel mondo occidentale, ma lasciamo perdere questo dettaglio che poi sembra che voglia giustificarmi.
    Durante i pasti, in casa, ho cominciato a mangiare carne umana, senza però dire a nessuno che quella che da un paio di mesi mi cucino nei modi più elaborati e sfiziosi e divoro con grande gusto leccandomi i baffi è carne umana. È buona, sapete, la carne umana. Certe parti del corpo umano preparate sulla brace, in padella o al forno con rosmarino, sale e pepe, sono più saporite del vitello o del manzo. Parola mia.
    Ai miei familiari faccio credere che è carne di pollo o di tacchino o di coniglio o di qualche altro animale. Tanto non si prenderebbero mai la briga di controllare. Loro hanno occhi (e soprattutto bocca) solo per i cereali e le verdure, le cotolette vegetali e le scaloppine di seitan, tempè o tofu, per le gallette di riso e le fette di segale o cibi simili.
    Sono diventato cannibale per reazione (ricordate cosa diceva Newton? «A ogni azione corrisponde sempre una reazione uguale e opposta»), lo sono diventato per risentimento e per portare all’eccesso il mio ardore carnivoro, ma soprattutto per fare un dispetto alla mia famiglia che ha fatto del veganismo la propria filosofia di vita, senza rendersi conto dell’umiliazione che subisco e patisco ogni volta che ci mettiamo a tavola, l’unico momento della giornata in cui la famiglia si riunisce al completo. Di solito mia suocera, come si vede nei film americani, recita una preghiera di ringraziamento, ci facciamo tutti il segno della croce, dopo di che iniziamo a mangiare, piatti rigorosamente vegani, tranne i miei naturalmente.
    Loro ignorano che mangio carne umana quasi tutti i giorni; imperterriti, durante i pasti, continuano a guardarmi come se avessero di fronte un mostro, un esemplare in via di estinzione.
    Dove prendo la carne umana? Facile. Conosco un tale che lavora all’obitorio di un ospedale della mia città, è molto sensibile al denaro, per soldi sarebbe disposto a vendersi sua madre, così gli sgancio delle belle sommette in nero e lui, a intervalli regolari, come fosse il mio macellaio di fiducia, mi rifornisce di carne umana, già sezionata e messa in piccole buste di cellophane che io conservo nel congelatore, accanto agli alimenti vegani della mia famiglia; sulle buste, per sviare ogni sospetto, mi preoccupo di scrivere a pennarello «TACCHINO», «POLLO», «FETTINE DI VITELLO», «BISTECCHINE DI MAIALE».

novembre 2016
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