Paolo Albani
IL RIMPROVERATORE

 

      Seduto davanti a me c'è un omone che non finisce mai, grande e grosso,  una testa imponente, quasi calvo. Sarà alto almeno due metri, forse di più. Fa impressione averlo a dieci centimetri di distanza. Mi sovrasta, come se mi trovassi ai piedi di una montagna.

      È la prima volta che ci vediamo, di persona. Di lui ho sentito parlare spesso, in modo contraddittorio. È un soggetto difficile.

Quando prende il bicchiere per bere ho sempre il terrore che, stretto nella sua mano da gigante, il bicchiere possa andare in frantumi, sbriciolarsi, liberando il vino rosso in un violento schizzo che andrebbe a macchiare la tovaglia candida.

    Lo osservo mentre attraversa la sala del ristorante, vestito in modo elegante, un completo blu, scarpe nere. Certamente, data la taglia, è un abito di sartoria quello che indossa. Si avvicina al mio tavolo a passo lento, con quell'andatura un po' barcollante che hanno gli animali dal corpo robusto, i pachidermi. Mi ricorda Primo Carnera. La stessa imponenza mista a goffaggine.

Ogni tanto, durante il nostro incontro, alza gli occhi verso di me, bontà sua. Mi guarda storto. Ha l’aria severa di chi è sempre sul punto di importi un divieto, in apparenza non giustificabile. Ha una voce profonda, normativa, qualunque cosa dica ha il sapore di un rimprovero. “No, questo non si fa”. “Questo è proibito”. “Evita quest’azione”. Che a me, quando uno si comporta così, mi entra una rabbia, un nervoso che, se non riesco a gestirlo, basta un secondo per trasformarsi in angoscia.

   Parla sempre lui, non mi lascia alcuno spazio per replicare alle sue osservazioni, di solito pungenti, il cui effetto nell'immediato è suscitarmi pulsioni negative.

   Mi vergogno un po’ per la sua intransigenza. Su due piedi lo definirei il modello ideale di uomo super-critico. Una sorta di censore dei desideri. Mi sto pentendo di aver accettato l’invito, però mi sembrava scortese rifiutare. Ha pure l’aria di essere permaloso come tutte le persone inflessibili, che mettono il dito nella piaga.

    Si è infilato il tovagliolo fra il colletto della camicia e il collo. Mangia con una certa compostezza; quando si porta la forchetta alla bocca – enorme nel momento in cui si spalanca, potrebbe entrarci un capretto intero arrostito allo spiedo; se avesse un occhio solo al centro della fronte ricorderebbe Polifemo – i gomiti restano all’altezza dei fianchi. È un uomo ben educato, rispettoso delle regole del bon ton. E mi da l’impressione non solo di quelle.

Mastica lentamente. Vedo che beve molto, si riempie il bicchiere di continuo, fino all’orlo. Siamo già alla seconda bottiglia.

   Ogni tanto, parlando, si passa una mano sulla nuca pelata, l’accarezza velocemente, quasi a voler nascondere un tormento, una perplessità. O forse è un semplice tic. Non sembra capace di sentimenti incerti, molli. Raramente il suo sguardo si alza dal piatto in cui mangia. Non mi piacciono le persone che non ti guardano negli occhi quando parlano con te. Sembra quasi che sei invisibile, che non sei lì.

    Mi verrebbe voglia di schioccare le dita per interromperlo e attirarne l'attenzione, prendere coraggio e dirgli: “Ehi, sono qui, mi vedi!”, ma l’omone di due metri m'incute soggezione. Così, alla fine, lo lascio parlare a ruota libera.

È un monologo, il suo. Narcisistico.

   A un tratto comincia a confabulare, quasi fosse un predicatore, di schemi di valore, di opposizioni bene/male, giusto/sbagliato, buono/cattivo, gradevole/sgradevole, contrasti che i bambini sono soliti attuare all'interno del rapporto con i propri genitori. Non so dove voglia parare. Il discorso si fa complicato, farraginoso.

Cosa c’entrano i miei genitori, ora?

    Ho il vago sospetto che, costringendomi a ripensare i miei comportamenti, il suo obiettivo sia farmi venire un senso di colpa nei confronti della società o quanto meno della mia famiglia, in quanto nucleo vitale della società. Ora sono io che lo guardo storto. Non ho ben capito a che gioco stia giocando. In ogni caso non mi piace il suo modo di relazionarsi con me.

     Tutto questo mi mette in agitazione, rischiando di non farmi apprezzare gli spaghetti alle vongole veraci che ho ordinato. Mi è passata quasi la fame, mi sento bloccato, in affanno, ma non posso lasciare le vongole a metà, non sarebbe educato nei confronti del mio ospite. Mi sforzo quindi di mangiare.

Ho capito che con l’omone si deve combattere. È un combattente. Cerca lo scontro, se non proprio aperto, inconscio.

    Avrei voglia di alzarmi, piantarlo lì, da solo, a crogiolarsi in quell’idea di perfezione di sé che emana sfrontatamente dall’espressione dei suoi occhi.

Ma reprimo il proposito di fuggire.

“Vedi – penso – mi sto autocensurando”.

Le mie gote sono diventate color aragosta, stanno per prendere fuoco, segno che non sono a mio agio, che mi sto innervosendo. Il mio stomaco borbotta, protesta, è messo a dura prova.

     Con un fare garbato, ma risoluto, l’omone mi accusa di avere delle pretese di grandezza, di essere molto esigente con me stesso, al che, balbettando, rispondo che francamente io... non so… certo, può essere che… beh, sì, ognuno di noi penso abbia un livello minimo di autostima, un livello di guardia sotto il quale… che lo fa andare avanti, sopravvivere. Altrimenti, uno finirebbe per… sì, ecco, finirebbe per perdere la bussola.

“È la critica dei tuoi genitori – mi spiega l’omone – che ha fatto sbollire le tue velleità infantili”.

   Non so perché metta sempre di mezzo i miei genitori. Qualsiasi discorso faccia, tira in ballo i miei genitori. Indelicato.

 

    Se Dio vuole la cena è finita. Mi rilasso. Il cameriere ha cominciato a sparecchiare il tavolo. Siamo gli ultimi clienti rimasti.

    Prima di andarsene, da una tasca interna della giacca il sosia di Primo Carnera tira fuori il portafoglio: lì per lì spero voglia pagare lui il conto, per risarcirmi della pesante conversazione (ma sì, figurarsi, il pensiero non lo sfiora minimamente). Estrae invece un bigliettino da visita e me lo  porge. Guardo il bigliettino, è bianco su entrambi i lati, non c’è scritto nulla, non un nome, non una via o una città, non un telefono o un indirizzo e-mail, non un elemento circa la professione. Nulla.

A che serve un biglietto da visita così concepito?

C’è solo una parola, stampata in maiuscolo, al centro: ÜBER-ICH. Così l’omone è conosciuto fra gli addetti ai lavori. Lo ringrazio per il biglietto da visita. Ci salutiamo. Lui abbozza un sorriso, formale, che sembra più un ghigno.

Alla fine, com'era prevedibile, è a me che resta il conto da pagare. 

 marzo 2018

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