POETI, TORRI D'AVORIO, PALCOSCENICI
(Risposte ad un questionario su poesia e teatro)

1) In che rapporto stanno, secondo te, teatro e poesia? Ritieni vi sia interazione possibile o che (invece) la parola poetica e quella teatrale siano incomunicabili, possedendo un diverso codice e, in definitiva, diversi riceventi?
2) Credi che poesia e teatro debbano il più possibile restare nel proprio ambito di ricerca e di attività o possano invece (e magari debbano) interagire?
3) Il rapporto tra parola e corpo, tra testo e gesto, tra segno e voce. Ancora una volta è il problema della cosiddetta « spettacolarizzazione» della poesia (uno pseudo-problema?).
A tuo giudizio tutti questi recitals, readings, perfomances servono solo (a) se stessi o il poeta o l'attore o la poesia o...?

* * *
Una risposta breve, unitaria, necessariamente schematica. Se consideriamo le diverse articolazioni del genere "teatro" (teatro di parola, di sole immagini, politico, dell'assurdo, borghese, d'avanguardia, ecc. per quanto simili distinzioni possono ancora valere oggi), e quelle del genere ."poesia" (poesia lineare, visiva, concreta, sonora, orale, ecc.), credo non sia difficile trovare, fra di esse, affinità e interazioni, anche sul piano strettamente linguistico.
Preliminare a una discussione sui piani di comunicazione esistenti fra ciò che si chiama "teatro" e ciò che si chiama "poesia" diventa la specificazione di quale teatro e di quale poesia ci stiamo occupando.
Com'è noto, diversi gruppi teatrali (in particolar modo quelli legati a un linguaggio mass-mediale) si sono appropriati di materiali poetici in senso stretto, e non in chiave puramente decorativa o citazionale, al contrario assumendoli come elementi organici all'interno della loro ricerca, come pure è vero che molti poeti hanno fatto sempre più uso di tecniche teatrali per spettacolarizzare i loro testi.
L'uso interdisciplinare di tecniche e linguaggi, considerati storicamente diversi, denota, da un lato, un progressivo slittamento e svuotamento delle rigide schematizzazioni dei generi (si pensi, ad esempio, a John Cage che musica con la propria voce alcuni brani del Finnegans Wake di Joyce; come definire il suo intervento: quello di un musicista? o di un poeta sonoro? o di un attore che interpreta secondo la propria sensibilità il testo joyciano?), e dall'altro, mette in luce l'esigenza di un arricchimento espressivo nei moduli artistici, in una fase in cui le parole, qualunque sia il loro contesto, denunciano una certa usura semantica, una chiara difficoltà a farsi veicolo di comprensione.
In linea di principio, perciò, un "teatro poetico" e una "poesia teatralizzante" non sono in contraddizione: rappresentano due aspetti di uno stesso fenomeno, caratterizzato dall'ampliamento dei margini di solidarietà fra i linguaggi codificati, senza, per altro, prefigurare una loro indesiderata unificazione.
Niente meraviglia se, per dirla con Adorno, «i generi artistici sembrano compiacersi di una sorta di promiscuità che trasgredisce i tabù culturali». 
Così, non si capisce perché lo specifico di un linguaggio teatrale non dovrebbe avvalersi della poesia, in quanto forma, ritmo, ecc., e viceversa, perché lo specifico di un linguaggio poetico non dovrebbe utilizzare la strumentazione della teatralità, conservando entrambi la loro (ipotetica) autonomia.
A questo proposito, c'è d'aggiungere che, a partire dagli anni sessanta in Italia, l'avanguardia letteraria e teatrale, avendo stimolato un'uscita del teatro dal Teatro e della poesia dalla Poesia ha contribuito non poco a un loro avvicinamento, sia pure discontinuo e problematico (i rimandi d'obbligo sono alle letture poetiche di Carmelo Bene e all'attività teatrale di un poeta come Sanguineti). Con questo, si è voluto dire che la domanda del questionario appare, in senso wittgensteiniano, mal posta. Non si tratta, infatti, di chiedersi ancora una volta se poesia e teatro, comunemente intesi, debbano «restare nel proprio ambito oppure interagire», ma piuttosto che cosa, nell'attuale fase storica (o meglio post-storica), poesia e teatro hanno da dirsi, sulla base delle rispettive linee di tendenza (che, poi, a guardare bene, più che linee sembrano curve arzigogolate).
Ma qui il discorso diventerebbe troppo ampio e impegnativo per uno come il sottoscritto che, sinceramente, in materia di Poesia e di Teatro (figuriamoci poi se presi insieme) non ha mai capito molto. 
Un'ultima postilla sulle "performances" e sui "readings". Ritengo sia necessario fare una distinzione.
La performance, forma di teatro "povero", "basso", emersa con la complicità della Body Art, è una manifestazione artistica con una storia ben precisa (se proprio non vogliamo scomodare le serate dada-futuriste, ricorderemo negli anni sessanta Krapov, Pistoletto, Paik, il gruppo Fluxus, ecc.) e una sua "filosofia" (l'arte come vissuto, comportamento, azione effimera, ecc.). Se questo è vero, domandarsi "a chi serva" una performance equivale all'interrogativo (per altro mai sciolto) sul perché si scrive una poesia, un romanzo, si dipinge un quadro, si compone musica, si filma una scena, e così via. Altra cosa sono invece i "readings", le letture, insomma la poesia in piazza, il castelporzianismo dilagante. 
Sociologicamente parlando, il fenomeno sembra investire più che altro problemi di veicolazione culturale, di diffusione, di creazione di nuovi spazi all'ascolto, di sensibilizzazione di fronte all'attuale (passeggero?) boom della poesia. 
Qui lo dico e qui lo nego.

Salvo imprevisti, 31-32, gennaio-agosto 1984, p. 4. Al questionario risposero anche Carla Baroncelli, Lino Di Lallo, Fabio Doplicher, Gio Ferri, Giorgio Fontanelli, Mario Lunetta, Valerio Magrelli, Dacia Maraini, Nicola Paniccia, Umberto Piersanti, Gianni Poli, Antonio Porta, Gianni Toti.


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