Paolo Albani
  SEMPLICISMO

 

 

     Il semplicismo, si legge nel vocabolario della Treccani, è un «modo troppo semplice e superficiale di considerare le cose, di proporre e risolvere problemi: tu ragioni con troppo semplicismo». Sinonimi di semplicismo sono faciloneria, superficialità.

    La ricerca della semplicità è parte fondamentale del pensiero del Monte Verità, la comunità fondata all’inizio del XX secolo da Ida Hoffman, dal suo compagno Henri Oedenkoven e dai fratelli Karl e Gusto Gräser, nella collina chiamata Monescia nei pressi di Ascona nel Cantone Ticino in Svizzera. La comunità del Monte Verità propugnava un modo di vivere semplice, libero e sano. Questa filosofia fu estesa anche all’uso scritto della lingua tedesca: i fondatori della colonia e i loro ospiti scrivevano usando una ortografia nuova, riformata e più semplice, ad esempio le lettere iniziali dei nomi non erano maiuscole, la grafia delle parole seguiva la fonetica e molte parole non erano più composte. Edgardo Franzosini ha scritto un bellissimo libro sull’esperienza della comunità del Monte Verità (vedi Sul monte verità edito da Il Saggiatore nel 2014).

     Questa storia della riforma ortografica praticata dai monteveritiani mi ha fatto venire in mente il neo-francese di Raymond Queneau. Volendo colmare lo scarto tra lingua scritta e lingua orale, lo scrittore francese progettò negli anni trenta una riforma linguistica che tendeva a semplificare, sul piano sintattico, lessicale e soprattutto ortografico, il francese scritto modellandolo su quello parlato.

   Un mattoide di cui mi sono occupato anni fa, un certo Carlo Cetti (1884-1965?), ha elaborato una teoria, il «brevismo» (parente stretto del semplicismo), che individua nella brevità del linguaggio un mezzo per la perfezione dello stile; Cetti sostiene che «la prima cosa cui, parlando o scrivendo, si deve badare, è la parsimonia sillabica, quindi, in ogni caso, alle parole, o locuzioni lunghe, si dovran preferir le brevi».

       Il semplicismo, di cui mi ritengo un fervente sostenitore, non è così deleterio come può apparire dalla fredda definizione della Treccani. Pensiamo alle istruzioni per l’uso degli oggetti in commercio, che sono spesso complicate, farraginose, incomprensibili, o ai bugiardini dei medicinali il cui linguaggio specialistico nemmeno la scrittura automatica dei surrealisti saprebbe eguagliare.

     Dipendesse da me, il semplicismo lo applicherei ovunque, per risparmiare tempo, inutili lungaggini cerebrali, ma soprattutto per evitare ambiguità e fraintendimenti nella comunicazione umana, che la vita è già di suo così tanto complicata che ogni accorgimento per semplificarla dovrebbe essere salutato come la manna dal cielo e accolto con entusiasmo.

       Prendiamo ad esempio il problema secolare dell’esistenza di Dio. Io dico molto semplicemente: Tu credi in Dio? Benissimo, nulla in contrario, liberissimo di crederci, vai pure in chiesa o in moschea o dove ti pare a batterti il petto e a raccomandarti l’anima. Ma puoi dimostrare che Dio esiste? Nel corso della storia ci hanno provato in tanti a dimostrare che Dio esiste o non esiste (persino in termini matematici, penso a un saggio di Kurt Gödel pubblicato postumo nel 1987) o anche che il problema è irresolubile e che perciò sia meglio sospendere il giudizio su questo argomento (agnosticismo). È qui, secondo me, che entra in gioco il semplicismo mostrando la sua efficacia e fecondità teorica. Su Dio è appurato che si può dire tutto e il contrario di tutto: allora è doveroso semplificare la questione per non insabbiarsi in speculazioni infruttuose, tortuose, che non approdano da nessuna parte e ammettere di buon grado: «il problema dell’esistenza di Dio è un falso problema», quindi andiamo oltre. Ognuno si regoli come vuole. Si obietterà: operando così, il semplicismo prefigura una condizione mentale di approccio anarchico alla teologia. E con ciò? A me sta bene, per quanto mi riguarda non ho niente in contrario, anzi: VIVA L’ANARCHISMO TEOLOGICO; che ben venga. L’equazione «semplicismo = anarchia» non mi dispiace.

       Un altro snodo, fra i tanti immaginabili, su cui applicare il semplicismo è la questione del matrimonio. Anche in questo caso vale ciò che ho detto sull’esistenza di Dio. Io mi limito a dire con estrema semplicità: Vuoi sposarti? Sei convinto che il matrimonio sia lo strumento adatto per raggiungere la felicità della coppia? D’accordo, sposati pure, liberissimo di farlo, nulla in contrario, per me puoi anche prenderti tre, quattro mogli, se la legge lo consente. Tuttavia chiedo: puoi provare che il matrimonio sia la felicità (concetto, quest’ultimo, quanto mai vago e nebuloso; è l’ozio, secondo Paul Lafargue, a rendere felici gli uomini)? Ricordo per inciso il giudizio di Guy de Maupassant sul matrimonio: «è uno scambio di cattivi umori di giorno e di cattivi odori di notte». Sul matrimonio si può affermare tutto e il contrario di tutto. Allora meglio semplificare la questione e lasciarla cadere nel vuoto, il matrimonio è un falso problema, più corretto trascendere, andare oltre e ognuno faccia quello che si sente di fare, in pace con la propria coscienza. Si obietterà: ma questo è anarchismo morale. E se anche lo fosse? Non mi tiro indietro e proclamo con fermezza: VIVA L’ANARCHISMO MORALE.

   Il semplicismo si rileva produttivo quando si affrontano questioni estremamente complesse quali ad esempio: il romanzo è morto? Dopo Finnegans Wake, molti hanno sentenziato che il romanzo è morto e ciò che si è prodotto dopo, sempre in forma di romanzo, non è che una serie di zombi letterari (così si esprime il critico Will Self in The novel is dead (this time it's for real) uscito sul «The Guardian» del 2 maggio 2014). In epoca sovietica si è addirittura teorizzato il «romanzicidio» per lasciare spazio a generi letterari più aderenti alla realtà, quali la biografia, il reportage, il diario. Di nuovo mi sento solo di abbozzare questa breve considerazione: Vuoi scrivere un romanzo dopo la (presunta) morte del romanzo? Fallo pure, nessuno te lo impedisce, sei liberissimo di scrivere quello che vuoi, nelle forme espressive che più ti sono congeniali, compresa quella del romanzo. Semplificando, morte o non morte del romanzo, l’importante è che ognuno si esprima secondo le proprie corde narrative, apertamente. La morte del romanzo è solo un falso problema, questo ci insegna il semplicismo. Se i romanzi continuano a essere pubblicati e letti da milioni di lettori nel mondo, allora insistere sulla morte di un genere letterario ampiamente rappresentato nei cataloghi degli editori è a dir poco bizzarro, non vi pare? Si può tacciare tutto questo di anarchismo estetico? È probabile. In tal caso non esito a dichiarare con forza: VIVA L’ANARCHISMO ESTETICO.

    Il semplicismo è un toccasana per appianare numerosi problemi, in ogni campo. Per quanto appaia trascurabile, consideriamo ad esempio l’annoso dilemma di come si pronuncia il cognome dello scrittore russo NABOKOV? Appellandomi al semplicismo rispondo tranquillamente: pronunciatelo come vi pare, nessun problema, Nàbokov all’inglese, Nabòkov alla russa o Nabokòv alla francese; del resto l’autore di Lolita, parlando della sua educazione letteraria infantile, la descrive come «quella tipica di un bambino trilingue, che legge Carroll in inglese, Tolstoj in russo e Flaubert in francese». E allora perché dannarsi, da pedanti, sulla pronuncia corretta di NABOKOV? Anche qui, non me ne vogliano i puristi della lingua, siamo in presenza di un falso problema che svanisce qualora si lasci a tutti la libertà di pronuncia, tanto è chiaro, comunque si pronunci NABOKOV, che alla fin fine, nel contesto di una discussione letteraria, stiamo parlando di lui, dell’autore di Lolita. All’obiezione che questo prefigura un atteggiamento anarchico in campo fonologico, ribatto convinto: VIVA L’ANARCHISMO FONOLOGICO.

      Semplificare, semplificare, semplificare, dico io. Questo è l’atteggiamento giusto da tenere di fronte ai problemi che la vita ci sottopone ogni giorno.

  


maggio 2017

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