Paolo Albani
LA SVISTA,
ISTRUZIONI PER L'USO


       Il vocabolario on line della Treccani definisce la parola «svista» in questo modo: «s. f. [der. di vista, col pref. s- (nel sign. 1)]. – Errore non grave, soprattutto in uno scritto, dovuto più che altro a disattenzione (propriam., errore che si commette per non avere visto bene): è stata una s.; il tema d’italiano è fatto bene, anche se c’è qualche s. di ortografia».

        Simulare una svista dentro un testo, cioè mettere di proposito un errore nelle pagine di uno scritto, nasconderlo bene in modo che non sia identificabile facilmente e sfugga alla lettura, è una vera e propria arte il cui scopo è tenere sveglia l’attenzione del lettore. È quanto sostiene un mio amico scrittore che è solito piazzare a posta degli errori nei suoi racconti, che sono dei polizieschi e dove quindi la ricerca delle sviste «assassine» s’amalgama bene a quella del colpevole di un delitto. Questa operazione è una sfida, dice lui, alla concentrazione di chi legge, all’impegno che il lettore dedica al testo che sta palpeggiando con gli occhi.

            Naturalmente la svista come pungolo aggiuntivo per il lettore − ci tiene a precisare il mio amico − funziona solo se il testo nel suo complesso (cioè sviste a parte) è di per sé attraente, sia dal lato dello stile che da quello del contenuto. Ciò significa, è sottinteso, che le sviste all’interno di un testo mediocre, bruttino e zoppicante avranno un effetto negativo perché finiranno per infastidire, e non certo arricchire, il lettore. In questo caso, gli studiosi parlano di «svista disturbante».

     Dunque, se le sviste trovate, quelle che si riesce a smascherare sono numerose ne possiamo dedurre che il livello di tensione mantenuto dal lettore nel corso della lettura è stato alto, soddisfacente e perciò gratificante per l’autore del testo il quale si preoccupa sempre di non tediare e stancare chi legge: è questo, ridotto all’osso, il ragionamento del mio amico scrittore.

     Al riguardo lui, che ha sempre odiato gli errata corrige, cita sempre, fra gli altri, Alberto Savinio e la sua Nuova enciclopedia dove il fratello di De Chirico dedica più di una voce all’errore, sottolineando lo stimolo al fantasticare che esso provoca. «Alcuni errori sono più che felici, sono provvidenziali» afferma Savinio che racconta questa storia: nel fascicolo V (quarta serie, anno II) della rivista «La critica» Benedetto Croce trascrive una pagina delle memorie della duchessa di Dino (1793-1862), nipote di Talleyrand, che all’inizio recita così: «C’est pourtant une utile chose que la veritè, ce premier des biens, tuojours inconnu par les âmes qui ne sont pas fortement trompées».

 

A questo punto – commenta Savinio − io smisi di leggere e cominciai a pensare. La novità di questo concetto mi aveva vivamente colpito, che l'animo per conoscere la verità deve essere «fortemente ingannato»; e una catena di pensieri inaspettati, vispi ed eccitanti, mi si andava formando nella mente, tutti generati da questa idea pessimista ma fertile e suadentissima, che «la verità nasce dall'inganno»; finché per l'improvviso ritorno della chiaroveggenza logica mi accorsi che trompées era un refuso, e non les âmes fortement trompées ma fortement trempées bisognava leggere, ossia «gli animi saldamente temprati». Il mio piccolo castello di pensieri inaspettati crollò di colpo. La pagina della duchessa di Dino non era più fonte di una nuova interpretazione della verità e delle sue origini, ma rientrava nella grigia regione delle verità ovvie. Dire che la verità non può essere conosciuta se non dagli animi saldamente temprati, è come dire che per fare la frittata occorrono le uova. E aggiungerò che per associazione di idee, l'idea della verità «generata dall'inganno» felicemente si associava alla personalità di Talleyrand, questo grande ingannatore. Ma ahimè! il giocattolo era rotto (Alberto Savinio, Nuova enciclopedia, Adelphi, Milano, 19774, p. 318).

 

          Per spiegare in modo chiaro la sua tesi della svista intenzionale usata come strumento per accendere e stimolare l’attenzione del lettore, il mio amico scrittore, condividendo in pieno la filosofia saviniana, ha redatto una specie di vademecum, di manuale delle istruzioni, dal sapore vagamente perecchiano, sul modo più efficace di introdurre le sviste in un racconto, specie in un racconto poliziesco:

 

     1) in primo luogo bisogna tenere presente che una svista è per sempre, nel senso che superato lo scoglio delle seconde o terze bozze (dove queste siano previste dal contratto editoriale) resterà almeno fino a un’eventuale ristampa (molto rara nella maggior parte delle pubblicazioni);

     2) è bene non avere fretta nell’inserimento di una svista: meglio attendere che il racconto abbia preso una sua consistenza, un suo ritmo convincente; diciamo che in media si può cominciare a farlo almeno dopo dieci, quindici pagine: è questa la soglia minima per cercare di sorprendere il lettore;

     3) una svista si mimetizza con più facilità se coinvolge un aggettivo, e ancor meglio se l’aggettivo è preceduto da un sostantivo (ad es: Appena entrata nella stanza, George notò che la ragazza aveva un volto palidissimo);

     4) eludere assolutamente le preposizioni e gli articoli determinativi (per la loro brevità) come pure le parole o le frasi straniere perché è dimostrato che nel punto in cui si cambia registro linguistico, ovvero si passa da una lingua a un’altra, il lettore avvia d’istinto, quasi in automatico, una strategia di controllo più rigorosa;

     5) più la parola che contiene una svista è lunga (ad es.: marinetiano, oppure i numeri in lettere tipo quattromilaquatrocentoventicinque) e più arduo sarà stanarla, come risulta dalle statistiche sulla frequenza delle sviste in campo letterario;

     6) evitare di disporre le sviste all’interno dei dialoghi, dove in genere il lettore sviluppa un comportamento più guardingo e non si concede distrazioni;

     7) la distanza fra due sviste va calcolata in base alla lunghezza del racconto: ad es. in un racconto di 50 pagine tipografiche standard, la distanza di sicurezza fra due sviste, cioè quella ritenuta sostenibile, dev’essere almeno di 4 o 5 pagine;

     8) una buona tecnica per nascondere una svista e creare un certo spaesamento nel lettore è fare leva sull’ambiguità ottica del linguaggio (del resto sappiamo che «svista» deriva da «vista»): ad es. invece di scrivere George mise in dubbio la relazione di Robert possiamo scrivere, per trarre in inganno il lettore, George mise in dubbio la reazione di Robert con un cambiamento non indifferente di significato, ma se poche righe prima di questa frase si è parlato di Robert come di un conferenziere, ecco che il lettore attento dovrebbe accorgersi che si tratta di una svista, ovvero che il termine «relazione» è stato sostituito con quello di «reazione»;

     9) è buona regola che una svista-anfibio, ristagnante sottotraccia, non si posizioni mai a inizio o fine di pagina dove, per ovvie ragioni percettive, è più individuabile;

     10) infine una considerazione generale: per essere veramente proficua e assolvere il suo benefico ruolo di stimolo, una svista, più volte reiterata, non deve costringere il lettore che la scopre, esaurito il suo individuale percorso di lettura, a pensare: «Ma chi cazzo l’ha composto questo libro?»



novembre 2015
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