Paolo Albani
LE MACCHIE




Odio le macchie. Non posso farci niente, ho questa ossessione. L’ho sempre avuta, fin da piccolo. A circa due anni ricordo di essere rimasto scioccato (è un ricordo nitido) da un neo sulla tetta sinistra della mia balia, una prosperosa signora di Carrara che forse, ma questo l’ho saputo dopo, faceva la civetta con mio padre. Avevo scambiato il neo per un animaletto nero.
    Che orrore sono le macchie. Un disastro. Scopro una macchia, anche piccolissima, quasi impercettibile, un puntino sul lembo di un mio capo d’abbigliamento – maglietta, pantalone, giacca, golf, cappotto, impermeabile, canottiera – e non ci vedo più. M’innervosisco. Inorridisco. Perdo il lume della ragione. La macchia deve sparire, con ogni mezzo, subito. Detersivo e bruschino. Sapone di Marsiglia e strofinamento energico fin quando la macchia non va via.
    Se sono al ristorante, e mi accorgo di essermi macchiato, chiedo immediatamente del borotalco o qualsiasi tipo di smacchiatore abbiano a disposizione. La macchia deve dissolversi, eclissarsi. Pena la distruzione del capo d’abbigliamento macchiato. (Comunque, è raro che mi macchi al ristorante perché di solito mi porto dietro quei tovaglioli enormi che sembrano le mantelle bianche che usano i barbieri).
    Non esiste che possa indossare un indumento “impuro”, cioè contaminato da una macchia.
Di fondo sono un tipo precisino, ho questa reputazione, lo so, e allora? Vogliamo discriminare i “precisini”, vogliamo metterli in croce? sopprimerli?
    A dirla tutta, se posso concedermi una piccola digressione, sono un precisino “contraddittorio” in fatto di macchie, perché se c’è una corrente artistica che amo questa è il tachisme, termine usato per definire un genere di pittura astratta popolare negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento, caratterizzato dall’uso di schizzi e macchie di colore (tache significa appunto “macchia” in francese).
    Il mio autore preferito in questo campo è Henri Michaux (1899-1984), non solo per le macchie diffuse nei suoi dipinti, ma anche per gli scritti letterari, pieni di fantasie geografiche e interiori, di “altrove” immaginari.


Henri Michaux, Untitled, 1960


    A parte quelle dei “tachisti”, meravigliosi ghirigori neri che ci restituiscono forme inquietanti, le macchie vere, quelle in particolare che sporcano gli indumenti, provocate da ogni tipo di sostanza (olio, inchiostro, schizzi di sugo, vino, sangue, fango, erba, vernici, grasso, ecc.), sono la mia dannazione, il mio lato oscuro.
    Macchiatemi e vi farete un nemico per sempre.

    Macchia, macchiolina mia. / Datti una mossa e vattene via, canticchio questa cantilena apotropaica fra me e me quando una macchia mi contamina.

    C’è chi ha il terrore dei topi o dei ragni, io ho una repulsione viscerale per le macchie.

    In un ristorante torinese, d’estate, dopo la presentazione di un mio libro, credo si trattasse di Forse Queneau. Enciclopedia delle scienze anomale, edito nel 1999 da Zanichelli, maltratto un cameriere imbranato che mi rovescia sulla maglietta un vassoio pieno di bicchierini lunghi da dessert colmi di prosecco, lo stramaledico, «Ti manderò il conto della lavanderia!», gli urlo minaccioso. In un attimo mi trasformo in una macchia di prosecco dalla cintura dei pantaloni fino al bavero della maglietta, che uno, se non avesse visto la scena, avrebbe potuto credere che l’orrenda gora scura che invade la mia maglietta è sudore. Che schifo! (Non il sudore, ma la macchia in sé). L’episodio suscita l’ilarità dei commensali, fra cui il mio editore, Lorenzo Enriques, e il presentatore della serata in libreria Stefano Bartezzaghi. «Cena bagnata, cena fortunata», commenta qualcuno, pensando di essere spiritoso. Fortunata un cavolo, tanto sono io che mi sono macchiato, mica lui.

    Da giovane, non ho esitato a lasciare una ragazza dopo il nostro primo rapporto sessuale, per altro non consumato. Lei esce dal bagno nuda, non l’avevo mai vista senza vestiti, è una ragazza splendida, un corpo da modella, resto senza fiato. Si avvicina al letto e si sdraia accanto a me. Le bacio una spalla. E però mi blocco subito dopo aver notato che ha una macchia di caffè sulla pelle, proprio sotto l’ombelico, una voglia color marrone a forma ovale.
    Lei si accorge che mi sono irrigidito.
    «Che c’è?», mi domanda, «non ti piaccio?».
    «No, sei bellissima», balbetto.
    «E allora perché ti sei fermato?».
    «Ecco, la tua macchia di caffè, lì, sotto l’ombelico».
    «Ti disturba?», fa lei, guardandosi la macchia e sfiorandola con una mano.
    «Sì», rispondo io. Senza offrire alcuna spiegazione.
    Lei si alza, nervosa, si riveste velocemente e mi saluta con un:
    «Fottiti!».

    È un caso (sic) che nella mia vita non abbia mai letto nulla, nemmeno un rigo, del francesista Giovanni Macchia, uno dei maggiori studiosi di Baudelaire, nonostante sia un autore, Baudelaire, che ho sempre amato tanto?
Vai a capire come gira il mondo.

    A proposito di come gira il mondo, stamani, inspiegabilmente, mi è arrivata una lettera anonima. Ricevere una lettera anonima, una lettera di cui non si sa chi è il mittente, crea una certa agitazione. Ti fai un sacco di domande che in genere restano senza risposte.
    Il timbro del francobollo indica la città di Livorno. Strano, non conosco nessuno che vive a Livorno. Ci abitava anni fa un mio vecchio amico delle lotte universitarie del 1968, anche lui di nome Paolo, che però è morto.
    L’immagine stampata sul francobollo è Butteri (1893), un quadro di Giovanni Fattori (che è nato, strana coincidenza, a Livorno il 6 settembre 1825), uno dei macchiaioli più famosi.
    Apro la lettera, lentamente, con cautela, quasi dentro ci fosse del materiale pericoloso (un innesco con polvere pirica che, attraverso un circuito elettrico, provoca un’esplosione).
Dentro invece c’è una cartolina non firmata, una data in alto a destra e questa immagine stampata su un lato (l’altro è completamente bianco):





    Macchia, macchiolina mia. / Datti una mossa e vattene via.
   

settembre 2024

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