Paolo Albani
L'ASSAGGIATORE

  Nello scompartimento del treno che lo portava da Roma a Napoli, Salvatore Mastropasqua notò, insieme ad altri viaggiatori, un tizio paffutello, sui quarant'anni, un filo di barba nera tenuta corta che gli girava intorno alla bocca. Era vestito tutto di nero: giacca, pantaloni, cintura dei pantaloni, camicia, cravatta, calzini, scarpe, cinturino dell'orologio e persino il fazzoletto che gli spuntava dal taschino esterno della giacca. Insomma, a Napoli si sarebbe detto, a vederlo, il classico iettatore. 
 Il tizio paffutello, mentre discorreva di argomenti futili, di quelli che si allacciano in treno, tanto per passare il tempo, con un altro tizio che gli stava seduto di fronte, non molto dissimile da lui per tipologia funesta, se ne uscì d'un tratto con questa frase:
 - A me piacciono le storie piccanti.
 Quindi, sfoderando un sorrisetto idiota, ribadì il concetto: - Mi piacciono le storie dal sapore forte, un po' spinte, che ti fanno venire l'acquolina in bocca, la voglia di divorarle... 

Ci sono persone che si mangiano le parole, in senso metaforico, cioè che s'ingarbugliano di fronte a certe parole, anche semplici, che non riescono a pronunciarle bene, che le sbocconcellano come succede all'orlo dei vecchi piatti. Ci sono altre persone invece che le parole se le mangiano davvero, fisicamente, attraverso i libri: è una malattia abbastanza nota, scientificamente parlando chiamata «bibliofagia», che ha avuto in passato i suoi illustri commentatori. Verso la metà dell'Ottocento, ad esempio, Octave Delepierre scrisse una curiosa dissertazione sui libri mangiati dai loro autori, a cominciare dal profeta Ezechiele. In un articolo apparso nel 1880 sulla rivista «Le Livre», Gustave Brunet riportò alcuni casi esemplari di «bibliofagia» fra cui quello di uno scrittore scandinavo che, per aver pubblicato nel 1643, un velenoso libello politico, fu condannato a divorarselo bollito nella zuppa, o quello di un giurista tedesco, un certo Philipp Andreas Oldenburger, obbligato, sempre nel secolo XVII, non solo a mangiarsi l'opuscolo che aveva scritto, ma a essere frustato durante il pasto.

 Mentre il treno sfrecciava monotono, senza eccessive vibrazioni, in un tratto desolante della campagna laziale, Mastropasqua guardava annoiato fuori del finestrino, consultando ogni tanto l'orologio, ansioso di arrivare presto a Napoli. Sentita quella frase, si scosse dalla sua apatia e si voltò di scatto a guardare lo «iettatore», sulle cui labbra pendeva ancora un risolino ebete. Poi disse dentro di sé: «E bravo guaglione, grazie assai!»
 Un mese dopo ritirò da un negozio di timbri, dietro piazza dei Martiri a Napoli, una targhetta in bronzo, formato rettangolare. Uscì dal negozio che era mezzogiorno. Un bel sole tiepido, per essere novembre inoltrato, illuminava la strada gremita di gente che si muoveva su file parallele, assorta nei propri pensieri o chiacchierando a coppie.
 Mastropasqua era raggiante, cosa che non gli capitava da tempo. Almeno dal giorno in cui, sfiduciato, si era iscritto nelle liste dell'ufficio di collocamento, disposto - sebbene si fosse laureato a pieni voti, trenta e lode, all'Università di Roma «La Sapienza», discutendo una tesi su «Il comico in Aldo Palazzeschi» con Walter Pedullà - ad accettare qualunque tipo di lavoro, anche manuale, di fatica (era un ragazzotto alto, prestante), disposto persino ad andarsene a lavorare fuori città.
 Sulla targhetta satinata era inciso in alto il suo nome: 

SALVATORE MASTROPASQUA

e sotto, a caratteri un po' più piccoli, sempre in stampatello, questa dicitura: 

ASSAGGIATORE DI PAROLE

 L'idea di Mastropasqua era di aprire, per il momento da solo (un socio, magari, se lo sarebbe preso dopo), uno studio professionale per l'«assaggio delle parole», un'attività - in un certo modo paragonabile a quella del sommelier - da esercitare in ambito letterario, al servizio prima di tutto degli scrittori, ma anche, più in generale, di coloro che, dalle parole, dalla scrittura, traggono una fonte di reddito per vivere.
 In pratica l'«assaggiatore di parole» - figura anticipatrice, per come l'aveva pensata Mastropasqua, dell'attuale editor - doveva adempiere a queste mansioni: procurarsi in primo luogo un contratto da un cliente «x», autore di un certo testo «y», leggere attentamente quel testo e soppesarne ad una ad una le parole. Quindi, in una fase successiva, doveva isolare quelle che, fin da un primo approccio, risultavano improprie, disadatte, sgradevoli; che spezzavano il ritmo di una frase, rischiando di comprometterne il livello palpabile della bontà letteraria, la sua freschezza. 
 Il lavoro dell'«assaggiatore di parole», da cui Mastropasqua sperava di cavarne fuori un po' di soldi almeno per due, tre anni (il tempo necessario a finire un romanzo iniziato prima della laurea), consisteva dunque nell'individuare le parole responsabili di scalfire l'efficacia espressiva di un testo, di renderlo indigeribile, di stravolgerne la combinazione alchemica dei suoni, delle pause, la magia della struttura narrativa.
 Quanto alla tecnica per «assaggiare le parole», Mastropasqua l'aveva descritta, dopo una lunga serie di verifiche, collaudi, affinamenti, calibrature olfattive, in un promemoria, una specie di libretto delle istruzioni a uso personale, che, dopo un preambolo sulle finalità di quel nuovo mestiere, entrava subito in argomento spiegando che: 

 «Quando nel testo s'incontra un ingorgo sintattico, un'ostruzione spiacevole dal punto di vista della musicalità, o anche solo della semplice comprensione, bisogna interrompere la lettura, prendere le parole sospette, quelle non facili da mandare giù, che mostrano di amalgamarsi male nel testo, e mettersele in bocca. A questo punto inizia la parte più delicata del lavoro, la più complessa. Per individuarne esattamente il sapore, che è la somma di più elementi costitutivi, occorre rigirarsi le parole fra la lingua e il palato, gustarsele delicatamente come se fossero un bonbon, approntando l'operazione con grande amorevolezza».

 Preparato nel suo campo, meticoloso, un intellettuale di quelli che si perdono a filosofeggiare dietro le virgole, e lo fanno, per di più, provandone una gioia immensa, Mastropasqua prese in affitto con pochi euro, nei pressi della stazione di Mergellina, una cameretta senza bagno, né finestre, al terzo piano di un palazzo fatiscente. Aveva intenzione di piazzarsi lì e di trascorrervi gran parte delle sue giornate, seduto dietro una scrivania su cui apparecchiare i fogli dei testi da prendere in esame, disponendoli come leccornie uno accanto all'altro. 
 Quella cameretta sarebbe diventata il suo ufficio, la sede della prima agenzia di servizio per l'«assaggio delle parole».

 «Non appena si trova una parola insipida, che suona strana, dissonante,» - si leggeva ancora nel promemoria del Mastropasqua - «bisogna estrarla fuori dal testo, sollevarla in alto con una pinzetta (è sufficiente una di quelle che servono a strappare le sopracciglia), facendo attenzione a non romperle i filamenti ortografici, che le parole, sottoposte a sollecitazioni di ogni tipo, sono oggetti fragili, malsicuri. Quindi, come si è già detto, bisogna mettersela in bocca. Fatto questo, si deve farsela sciogliere lentamente lungo l'incavo morbido della lingua, ciucciarsela emettendo a piacere dei piccoli schiocchi: in breve si può cominciare a succhiarne l'essenza. In fondo, il lavoro di "assaggiatore di parole" si riduce a questo. Che non è poca cosa.
 Ogni tanto ci si deve fermare e prendere appunti, che serviranno a stendere la relazione finale da presentare al cliente.
 Dopo alcuni gorgoglii ben calcolati, e una serie di rotazioni da un lato all'altro della bocca - le gote, in questi momenti, si gonfieranno, proprio come accade a un sommelier mentre sorseggia del vino o a un trombettista di jazz quando soffia dentro al suo strumento (avete presente Louis Armstrong?) - si sarà in grado di decifrare il sapore delle parole selezionate, e dal sapore, per via diretta, cioè basandosi sulla propria competenza olfattiva, risalire alle loro qualità intrinseche, al loro grado di vigore, di limpidezza, di armoniosità».

 Non sarebbe giusto ridurre il servizio fornito dal Mastropasqua a un lavoretto di routine, o ancora peggio identificarlo con quello di un semplice correttore di bozze. Al contrario, la sua era, sotto ogni aspetto, una prestazione altamente qualificata, di responsabilità. 
 Se qualcuno - prendiamo il caso di uno scrittore - si fosse affidato alla sua consulenza, come esperto nell'«assaggio delle parole», ne avrebbe sicuramente ricevuto un enorme beneficio: avrebbe potuto effettuare dei cambiamenti radicali all'interno del proprio testo, intervenire su di esso in profondità, migliorarlo in quei punti dove più necessarie erano le correzioni e renderlo con ciò, alla fine, più stuzzicante, appetibile.
 Nonostante le belle intenzioni, e l'entusiasmo che non gli mancava, trascorsi appena due mesi dall'apertura dell'ufficio di «assaggiatore di parole», Mastropasqua si ritrovò di nuovo disoccupato.



Una versione ridotta di questo racconto è uscita su il Caffè illustrato, 22, gennaio-febbraio 2005, p. 11.

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