Paolo Albani
LA CONFESSIONE
ovvero
IL SEGRETO DI BUZZATI:
NON E' MORTO, MA E' INVECCHIATO

 Pubblicando questo racconto so bene di svelare un segreto (almeno in parte, perché qualcosa mi riservo di non dire), d'infrangere una promessa fatta a una persona che si è fidata ciecamente di me e di cui mi appresto a tradire la fiducia, comportamento in sé deplorevole verso il quale, non lo nascondo, provo un certo imbarazzo. Ma sono reduce da un'esperienza talmente straordinaria, clamorosa che non posso continuare a tacere.
 Non resisto. Il desiderio di confidarmi, di sfogarmi con qualcuno è più forte di me. 
 E allora mi sono detto: perché non parlarne al lettore di un racconto che io stesso dovrei impegnarmi a scrivere, costruito appositamente intorno all'incredibile storia di cui sono stato testimone? Perché non aprire a lui, al lettore di quel racconto, il mio cuore e metterlo al corrente del segreto che mi agita? In fin dei conti, anche se l'idea non è nuova, trattandosi di una questione letteraria, affidare il ruolo di confidente, di complice, al lettore che avrà la pazienza di leggere quel racconto, è forse la decisione più saggia da prendere.
 Ed è quella che ho preso, infatti. Perciò mi sono messo subito al lavoro e ho scritto il racconto che ora stai leggendo, caro lettore, per renderti partecipe del mio segreto, che ancora mi brucia dentro, e liberarmene una volta per sempre.

 Tutto è iniziato nel marzo del 2005 quando ho conosciuto uno studente filippino che chiamerò per comodità Abueg (ma non è questo il suo vero nome), un ragazzo sveglio, molto intelligente e preparato che frequentava il mio corso di «Letteratura italiana contemporanea» alla Facoltà di Lettere dell'Università di Milano, corso interamente dedicato allo scrittore italiano che amo di più: Dino Buzzati. 
 Mi sono impegnato a fondo nel preparare il corso su Buzzati, ho riletto quasi tutti i suoi testi, anche quelli non in prosa: le poesie, il teatro, i libretti musicali; e poi i principali studi monografici e i saggi critici su di lui, ho ripreso in mano con grande gioia i cataloghi delle sue mostre. Per gli approfondimenti ho chiamato degli esperti a illustrare alcuni aspetti dell'opera buzzatiana (per esempio a parlare del Buzzati giornalista, autore di mirabili pezzi di cronaca nera, è venuto Lorenzo Viganò).
 Il corso è andato bene, al di là di ogni mia aspettativa. Ho visto che gli studenti (non molti quest'anno, per fortuna) hanno seguito con interesse le lezioni. Credo di essere riuscito a trasmettere loro la mia passione, il mio incondizionato amore per Buzzati. 
 Leggendo in aula alcuni racconti (Sette piani, Il cane che ha visto Dio, Il colombre), in prossimità di alcuni punti cruciali della narrazione, mi sono lasciato spesso vincere dal fervore recitativo; una studentessa mi ha detto che durante quelle letture ha notato che mi brillavano gli occhi dall'emozione, sembrava quasi che stessi per piangere da un momento all'altro. Insomma era evidente che la scrittura di Buzzati mi coinvolgeva molto.
 Abueg, che parla benissimo l'italiano, anche perché è nato a Milano da genitori filippini, non si è perso una sola lezione. È sempre stato il primo ad arrivare in aula, e anche il più attento, il più partecipe nel gruppetto dei frequentatori assidui del corso. Durante le discussioni, specie quando la lezione era tenuta da un «esperto buzzatiano», Abueg si è prodigato in domande pertinenti, stimolanti.

 Poco prima della fine del corso, mentre fuori dell'aula stavo sorseggiando un caffè vicino a una macchinetta che distribuisce bevande, Abueg mi si è avvicinato con un'aria stranamente furtiva, circospetta, ha esitato qualche secondo accertandosi che nessuno ci stesse guardando, poi mi ha mostrato, estraendola da una cartellina di plastica, la riproduzione a colori, stampata su un foglio A4, di un quadro raffigurante la testa di un animale immaginario, una specie di antilope con tre occhi, sporgente, come un trofeo di caccia, dalla parete di un salotto angusto, arredato con mobili in stile vagamente etnico.
 - Che cos'è? - gli ho detto dando un'occhiata superficiale al dipinto.
 - È un quadro di Buzzati - ha risposto Abueg. - L'ho fotografato con il mio cellulare, e poi ne ho fatto una stampa dal computer. È per lei - ha aggiunto disponendosi in un sorrisetto enigmatico, velatamente pervaso da quell'ambiguità che solo gli orientali sanno stendere con delicata maestria sulle labbra.
 Lì per lì non mi sono preoccupato di domandargli dove avesse fotografato il quadro, ho immaginato che provenisse da un vecchio catalogo di una mostra di Buzzati. Perciò mi sono limitato a ringraziare Abueg del regalo e ho finito di bere il mio caffè. 
 Soltanto alcuni mesi dopo (nel frattempo il corso era già finito), riprendendo in mano per caso la fotografia regalatami da Abueg, mi sono accorto che il quadro aveva, nell'angolo in basso a destra, disegnata in nero, l'indicazione di un anno: il 1989.
 Dalla segreteria di Facoltà mi sono fatto dare il cellulare di Abueg che, per altro, doveva ancora sostenere il mio esame. E l'ho chiamato subito.
 - Perché mi hai detto quella stupidaggine, che il quadro era di Buzzati? - gli ho chiesto bruscamente, con un tono di voce un po' alterato, che non è nel mio stile.
 - Possiamo vederci da qualche parte, professore? - è stata la risposta sorprendente di Abueg.

 Il giorno dopo, nel primo pomeriggio, ho incontrato Abueg in un caffè vicino a piazza del Duomo. Ed è lì, appartati in una tea-room semideserta, sforzandoci di coprire con le nostre voci le note fastidiose di una musichetta proveniente da un punto imprecisato del locale, che Abueg mi ha riferito, scandendo lentamente le parole, il segreto che ora sto per confidare anche a te, caro lettore, un segreto per il quale, rimangiandomi la parola data, ho messo a dura prova la mia affidabilità. Eh sì, perché quel giorno avevo giurato ad Abueg, non ricordo più su che cosa, che il contenuto del nostro colloquio non sarebbe uscito da quella stanza.
 Inutile dire che, all'inizio, non ho creduto a una sola parola del racconto di Abueg. Era un racconto pazzesco, inattendibile, che non stava in piedi da nessuna parte. Fino a quando io stesso, di persona, non l'ho verificato e ho scoperto che il ragazzo non mentiva.
 In breve Abueg mi ha confessato di essere il nipote del badante filippino di Dino Buzzati. 
 Sì, è questo l'ingombrante segreto che sono felice di svelarti, caro lettore: Dino Buzzati non è morto come tutti credono il 28 gennaio del 1972, data che figura, accanto a quella della nascita dello scrittore bellunese, in tutti i libri di storia della letteratura italiana e nelle antologie scolastiche. 
  Dino Buzzati è ancora vivo. La malattia, il ricovero alla clinica «La Madonnina», il funerale e le altre adempienze del caso: furono solo una messa in scena. Una serie di espedienti attuati all'insaputa di tutti, anche dei familiari, ad eccezione del fratello Adriano, genetista. Fu lui a ordire il piano perché Dino potesse sparire e ritirarsi a lavorare in santa pace, appartarsi senza più avere scocciature, obblighi d'ogni sorta verso un mondo letterario che sentiva sempre più estraneo, appiattito, vuoto.
 Oggi Buzzati è un vecchietto che ha compiuto 99 anni, ancora vispo e presente a se stesso, che vive, sotto un altro nome (che non rivelerò), per lo più seduto su una poltrona, in un appartamento non lontano dalla sua casa storica di viale Vittorio Veneto (di più non posso dire), un appartamento luminoso pieno di libri e di quadri sparsi un po' ovunque, anche in cucina, accudito da un anziano filippino che da anni ne protegge con discrezione la vera identità e gli si è sinceramente affezionato. 
 Io l'ho visto Dino Buzzati. Una sera mi sono introdotto di nascosto nel suo appartamento insieme ad Abueg che aveva  le chiavi di casa Buzzati, un duplicato fatto all'insaputa del nonno filippino. E l'ho visto il Buzzati, da vicino, paurosamente invecchiato, mentre, nella penombra del suo studio, dormiva in poltrona con un plaid che gli copriva le gambe, la testa reclinata su un lato, le mani ossute, punteggiate di macchioline giallo-brune. Sono stato lì, con il fiato sospeso, immobile, a guardarlo almeno per dieci minuti e mi ha fatto una grande tenerezza.


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Con il titolo "Il segreto di Buzzati: non è morto, ma è invecchiato", questo racconto è uscito sul numero 29 de Il Caffè illustrato, marzo-aprile 2006, pp. 8-9.

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