Paolo Albani
IL FANTASMA  DEL "DUCA D'AOSTA"

Per essere un fantasma, con tutti i crismi che distinguono, nel bene e nel male, la categoria dei fantasmi, Alfonso aveva dei modi gentili. 
Niente rumore di catene, ululati o risate raccapriccianti nel pieno della notte. Niente spostamento di mobili, porte sbattute o voli improvvisi di oggetti, tecniche - così almeno si dice - fra le più sperimentate dai fantasmi per mettere in fuga gli abitanti di una casa ed avere il campo libero per organizzare subdoli convegni e scorribande di ogni genere.
Nei panni del fantasma, Alfonso c’era entrato all’inizio dell’inverno 1934, da quando cioè, non ancora cinquantenne, aveva dovuto lasciare questo mondo, a seguito di una brutta malattia, sebbene pietosa nella sua rapidità. E adesso, da fantasma, esercitava lì - se così possiamo esprimerci - nell’appartamento di piazza Garibaldi al numero 37. 
Da allora, puntualmente, gli era capitato di affezionarsi ai nuovi proprietari. Era uno slancio più forte di lui, un fatto di carattere, o se vogliamo una debolezza, la strana inclinazione di un fantasma sentimentale.
I primi che aveva conosciuto, dopo la sua scomparsa, erano stati i coniugi Ferretti. Lui faceva il postino vicino ai mercati generali e Alfonso tutte le mattine, pazientemente, gli puliva il cappello, con le lettere PT in risalto sopra la visiera. 
Alla fine degli anni cinquanta, era subentrata la famiglia Corsi, padre finanziere, madre casalinga di origini venete ed una figlia bruttina e ribelle. Anche al signor Corsi, che ci teneva alla forma, da militare, Alfonso prese a pulire il cappello d’ordinanza, con la fiamma gialla cucita davanti in bella vista, e questo gli sembrò un segno del destino.
Quando arrivò la televisione, Alfonso si mise a guardarla, insieme alla famiglia Corsi, una delle prime ad acquistare un televisore nello stabile di piazza Garibaldi. Si sedeva accanto a loro lasciandosi catturare dal brillio delle immagini e dalle storie che accadevano lì dentro. In particolare gli piacevano i quiz. 
Una sera, mentre trasmettevano Lascia o raddoppia?, appena un secondo dopo che Mike Bongiorno aveva finito di formulare la domanda, gli venne da gridare emozionato: «Louison Bobet!», anticipando la risposta del concorrente. In quell’attimo la moglie del finanziere si voltò, come se avesse sentito qualcosa, e sorrise al marito.
Alfonso si divertiva anche alle festicciole che la figlia bruttina dei Corsi organizzava insieme ai compagni del liceo. La baldoria dei giovani gli trasmetteva un senso di vitalità. A volte, però, esagerava con l’entusiasmo. Gli veniva di buttarsi nelle danze, tanto nessuno lo poteva vedere, e finiva per combinare dei guai, come rovesciare un bicchiere colmo di spumante sul tappeto persiano del salotto o rompere una statuetta di ceramica.
E ci rimaneva male quando, finita la festa, sentiva gli urli della madre che, in veneto, sbraitava contro la figlia bruttina per i danni che, in realtà, lui aveva provocato. In quei momenti diventava triste. Perché si sentiva un intruso in quella casa, anche se era stato lui il primo a comprarla, tanti anni prima, con i risparmi di una vita. Gli sembrava di essere uno spione nascosto dietro l’ipocrisia dell’invisibilità e avrebbe voluto mettersi ad urlare, dalla vergogna, ma per fortuna non lo faceva, altrimenti avrebbe peggiorato la situazione.
La notte che rubarono nell’appartamento dei Corsi, Alfonso si prese un bello spavento. Come ogni mercoledì i Corsi erano andati al cinema "Ideale", tutti e tre. Alfonso dormiva sprofondato sul divano, davanti ad una vetrinetta che custodiva l’argenteria di famiglia. Quando il ladro gli passò accanto sfiorando la sua figura incorporea, Alfonso si svegliò di colpo e se lo vide davanti, vestito di nero, che ispezionava la stanza con la pila in una mano e nell’altra un sacchetto pieno di refurtiva. Allora lanciò un grido, terrorizzato, e, chissà come, mistero dei flussi imponderabili della comunicazione infratemporale, il ladro fuggì.
Alfonso fu molto felice quando nell’appartamento dei Corsi arrivò Perla, una cagnolina bastarda dal manto scuro e liscio, raccattata per strada. Si sentì meno solo. Passava delle ore a giocare con Perla, o Perlita come tutti la chiamavano nell’intimità. Si divertiva a farle dei piccoli dispetti, come tirarle la coda all’improvviso, spostarle lentamente la ciotola delle crocchette mentre mangiava o soffiarle sul tartufo rosa del naso quand'era sdraiata sulla brandina.
Perla era una cagnetta buona e paziente, e si lasciava fare di tutto, anche se un pomeriggio la signora Corsi, di ritorno dal supermercato, la trovò che abbaiava e ringhiava verso un angolo della cucina, a tratti arretrando e spostandosi a destra e a sinistra, con balzi fulminei, quasi avesse voluto bloccare qualcuno ed impedirgli la fuga. 
«Che fai, stupidina?» la sgridò affettuosamente la signora Corsi prendendola in braccio, «adesso ti metti ad abbaiare ai muri?»

Nell’estate 1987 la famiglia Corsi, Perlita compresa, si trasferì a Trieste, perché al Ministero delle Finanze avevano fatto due conti e avevano visto che a Trieste c’era bisogno di qualche finanziere in più, per combattere l’evasione fiscale ed il contrabbando. 
Per molti anni la casa di piazza Garibaldi restò disabitata, ridotta a magazzino d'impolverate suppellettili e bavose geometrie di ragni. Ben presto, senza più il calore della famiglia Corsi, Alfonso fu travolto dai languidi struggimenti della nostalgia che, a volte, si manifestava in gesti apatici. Gli succedeva, ad esempio, di fissare per ore la ciotolina di plastica di Perlita, sbocconcellata lungo il bordo,  o di starsene seduto, a giornate intere, al centro del pavimento della stanza vuota che un tempo era stata il salotto in cui, lui e la famiglia Corsi, avevano trascorso delle belle serate davanti alla televisione.
Da fantasma, in passato, Alfonso aveva dovuto affrontare non pochi momenti critici, e disperanti. Quello, però, li superava tutti. Il trasferimento improvviso della famiglia Corsi ebbe su di lui un’influenza così rovinosa da gettarlo in uno stato di profondo sconforto. La solitudine gli fece rimpiangere, cosa incredibile, persino le bizze della figlia bruttina in fatto di cibo e di vestiti o le canaste del giovedì, consumate fra i pettegolezzi di un gruppo di odiose vecchiette di cui la signora Corsi si circondava per carità cristiana.
In breve tempo il dolore diventò insopportabile, anche per un fantasma tenero e generoso come lui. Perciò si fece un giuramento: non si sarebbe affezionato più a nessuno. E così alla fine, per non correre rischi, decise di andare a vivere in una stanza d’albergo, al secondo piano del «Duca d’Aosta», un due stelle a gestione familiare, un po' fatiscente, ma decoroso, che stava lì vicino, all’angolo con piazza Garibaldi. 
In albergo la gente va e viene, e si fa gli affari suoi. Non ha tempo di stabilire delle relazioni. Dorme, fa colazione e poi, grazie al cielo, per tutta la giornata sparisce e non si vede, come i fantasmi.

maggio 2002

Pubblicato su "Tangram", rivista di cultura ludica, 2, luglio-settembre 2002, pp. 61-64.
 
Il racconto è uscito poi, con leggere modifiche, nel mio libro Il sosia laterale del 2003.



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