Paolo Albani
L'IMMOBILITÀ
   



La mia idea è che l’immobilità sia una condizione tutto sommato vantaggiosa, che abbia una sua utilità, un suo valore strategico esistenziale non indifferente. Ci sono certi animali (ad esempio il gatto con un volatile) che restano immobili per lungo tempo al fine di catturare delle prede, altri invece che s’immobilizzano per non farsi sorprendere da un predatore, sviluppando vere e proprie strategie di camuffamento nella speranza di non essere visti, confusi in una vegetazione colorata allo stesso modo del proprio corpo (atteggiamento tipico di alcuni insetti, fra cui il più noto è l’insetto stecco, altrimenti detto Bacillus rossius, che assume la forma di foglie, bastoni o rami per trarre in inganno eventuali assalitori).
    Nel mondo che ci circonda l’immobilità è un fenomeno diffuso, dominante: pensiamo ad esempio alle piante che restano piantate nel luogo in cui nascono e crescono fino alla fine della loro esistenza e non hanno nulla di cui lamentarsi; al contrario le piante fanno dell’immobilità la loro forza vitale: un albero che camminasse, che si spostasse da un punto all’altro di una collina portandosi dietro tutto il suo bagaglio di rami e di foglie, romperebbe l’equilibrio naturale del nostro ecosistema, sarebbe un controsenso, un’anomalia vegetale.
Oltre alle piante, sempre ragionando in termini d’immobilità, ci sono le statue che brillano per la loro staticità cronica: i santi sulle facciate delle chiese, i putti delle fontane, le persone (alcune delle quali storicamente importanti) e gli animali rappresentati in certi monumenti.
    Quanti Garibaldi a cavallo, con la sciabola sguainata o una mano protesa in avanti a indicare non si sa bene cosa (eppure ogni volta, osservando quella mano, viene voglia di guardare nella direzione che indica), si concedono inerti al nostro sguardo in tante città italiane e anche all’estero? Se passiamo in giorni o mesi diversi da Villa Falcone e Morvillo a Palermo, la statua di Garibaldi, modellata dallo scultore palermitano Vincenzo Ragusa e fusa in bronzo a Roma nella fonderia del cavaliere Alessandro Nelli, è sempre lì che ci aspetta, paziente, ferma nella sua plasticità, insieme al leone bronzeo, accucciato ai suoi piedi, simboleggiante la Libertà mentre spezza le catene della tirannia borbonica. Se tornate a villa Falcone e Morvillo a distanza di anni, potete star tranquilli: Garibaldi è sempre lì, non si è mosso di un millimetro, non è mai sceso da cavallo, non si è mai assentato dal blocco di cemento che lo sostiene per sgranchirsi le gambe nel Giardino Inglese della villa. In questo caso, sappiamo che la mano di Garibaldi indica a Nino Bixio la nuova direzione da intraprendere nell’attimo in cui l’eroe dei due mondi pronuncia la storica frase: «Nino, domani a Palermo!»
    A proposito di monumenti, se mai un giorno vorranno farne uno a me – gli venisse in mente per sbaglio all’amministrazione della mia città natale, un azzardo del sindaco: non credo ci siano tanti cittadini illustri nati a Marina di Massa, per cui la cosa potrebbe essere anche fattibile (ma io non ci tengo, lo dico subito, a scanso di equivoci) –, allora mi piacerebbe che mi rappresentassero seduto, in panciolle, con l’aria serena, il massimo dell’immobilità nell’immobilità, come la statua che c’è a Lucca dedicata a Giacomo Puccini, dove il maestro, seduto su una comoda poltrona con ampi braccioli, stringe fra le dita della mano destra un mozzicone di sigaro (anche Marx, o meglio la sua imponente statua in bronzo, è seduto in uno spazio verde del quartiere Mitte a Berlino, mentre il suo amico Engels, al fianco, è in piedi).
    Sono forse le tracce più emblematiche e probanti dell’immobilità sulla superficie terrestre: sto parlando dei lampioni che fiancheggiano le strade e le autostrade, belli dritti, poggianti su una gamba sola, inchiodati al terreno sia con le luci accese che spente. Non esiste che un lampione, di giorno o quando cala il sole, perda la testa e cambi posizione di sua iniziativa, che si allontani, a piccoli salti, dal raggio di azione che gli compete. Non è nel suo modo di essere «faro» nella notte e nella nebbia. Un lampione è affezionato al punto-luce assegnatogli dalle direttive del piano regolatore, non tradirebbe mai la sua immobilità e la fiducia degli altri lampioni con cui s’allinea, è una questione di amicizia.
    La stessa filosofia immobilista pervade i lampioni nei parchi pubblici e i pali della luce come pure i tralicci disseminati nelle campagne, bruttissimi da vedere, ma potenti comunicatori di energia positiva, senza la quale non si produrrebbe alcun tipo di merce.
    C’è immobilità, ovvero assenza di spostamento logistico, nelle case delle città (almeno fin quando non vengono distrutte per far spazio a altre immobilità costruttive), negli edifici ministeriali, nei palazzi storici che stanno dove stanno da un sacco di tempo con grande soddisfazione di tutti, specialmente dei turisti, e poi ancora nei marciapiedi (provate a immaginare lo scompiglio sussultorio provocato da un marciapiedi che si muove!), nei ponti, nei viadotti, nelle banchine dei porti, nelle mura storiche che ancora sopravvivono, a dispetto dei terremoti. Sono inamovibili anche le pompe di benzina, le torri di controllo degli aeroporti, le stazioni ferroviarie (è facile intuire che se si spostassero le stazioni ferroviarie da un momento all’altro sarebbe un disastro, il caos totale nella circolazione dei treni).
    Per non parlare dell’immobilità che investe perentoriamente grandi spazi come le montagne, i promontori, le insenature, le scogliere, le isole (i continenti no perché i continenti non sono fermi, anzi si muovono in continuazione andando letteralmente «alla deriva», a causa della crosta terreste che è composta da tanti piccoli pezzi chiamati placche o zolle).

L’immobilità più inquietante è forse quella degli animali imbalsamati, perché non sembra nemmeno immobilità, ma il prolungamento infinito di un attimo della loro vita, non so come spiegarmi, in ogni caso è un’immobilità che tende all’illusione di un possibile movimento.
      Ho detto all’inizio che l’immobilità è una condizione vantaggiosa. Perché?
    A differenza di quanto si crede comunemente, ovvero che sia uno sgarbo all’innovazione e al mutamento, l’immobilità rappresenta un gesto di fedeltà al proprio ruolo, alla funzione che svolgiamo senza lasciarsi sedurre da facili scappatoie o debordanti fughe dalle nostre responsabilità morali e civili.
    Il vantaggio dell’immobilità è renderci amorevolmente attaccati a una causa, a un obiettivo. Il contrario dell’immobilità è l’instabilità, la precarietà, la provvisorietà. Se sei un lampione devi assolvere onestamente alla tua funzione di lampione, senza tentennamenti, oscillazioni, rispettare la fissità della tua missione illuminante. Altrimenti dove andrebbe a finire il mondo?
    Quando Noemi mi ha confessato di essere andata a letto con un altro (un altro che conosco bene, perché è il nostro vicino di casa, un giovane architetto pieno di boria: personalmente l’ho sempre considerato una «grande testa di cazzo»), e che l’aveva fatto perché voleva provare nuove emozioni che ormai non si aspettava più da me, io non ho battuto ciglio, sono rimasto impassibile, rigido come una pietra, immobile.
    Da settimane mi mancano le forze, sono debole, uno straccio, non riesco a alzarmi dalla sedia (come la statua di Puccini a Lucca), non ho più messo piede fuori casa, ho disdetto ogni appuntamento, non mangio. Mi sono paralizzato, non faccio più niente. E però l’immobilità in cui sono caduto sento che mi aiuta, ha qualcosa di speciale: mi rende partecipe dell’infinita immobilità che mi circonda, sono un puntino statico, insignificante all’interno di un cosmologico immobilismo, e non mi dispiacerebbe che una qualche entità soprannaturale – Belzebù o Woland in persona – avesse il buon cuore di trasformarmi in un lampione, di quelli stile liberty, in ferro battuto, pesanti, per rendere più saldo e tangibile il mio desiderio di restare immobile a lungo.


settembre 2019


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