Paolo Albani
LE COSE CHE NON SO

Babbomorto Editore

Imola 2017



Premessa di Roberto Asnicar
collana CAFARNAO
27 copie numerate

          Ho sentito alla radio una trasmissione su Niels Bohr, il fisico danese premio Nobel per la Fisica nel 1922. A un certo punto il commentatore ha detto che Bohr aveva qualche difficoltà espressiva quando parlava in pubblico e una spiegazione di questa difficoltà, secondo il commentatore, è che, mentre di solito uno scienziato espone al pubblico quello che sa, Bohr, parlando, cercava forse una risposta a quello che non sapeva. Allora, dopo aver sentito questa (per me) sorprendente affermazione, mi sono fatto un esame di coscienza e ho provato a buttar giù, un po’ alla Perec, una lista di cose che non so, che sono un’infinità, e perciò mi limito alle più eclatanti, altrimenti non la finiremmo più.

       Ad esempio, tanto per cominciare, io non so qual è il meccanismo che permette a una lampadina di accendersi: se uno mi chiedesse di spiegargli, su due piedi e in parole semplici, perché una lampadina si accende, confesso che avrei delle difficoltà a dirglielo, e questo vale anche per il fenomeno luminoso delle lucciole che sono uno spettacolo magnifico quando lampeggiano sui prati, all’arrivo dell’estate; l'emissione luminosa delle lucciole si manifesta nella fase in cui il maschio corteggia la femmina, prima dell'accoppiamento, e allora, per quanto irreale e non scientifica, sarebbe bello pensare la stessa cosa delle lampadine, ovvero che si accendono animate da un impulso erotico, o meglio da una forma di autoerotismo elettrico che rende incandescenti i loro filamenti; non potendo muoversi dal loro alloggiamento, di solito a vite, si masturbano irradiando con la propria luce l’ambiente circostante, e in questo esercizio di autoerotismo durano di più le lampadine a risparmio energetico, mentre quelle alogene sono più vigorose sul piano del potere illuminante, e quando una lampadina si fulmina vuol dire che ha raggiunto l’orgasmo, l’acme del piacere luminescente e si addormenta nel buio che lei stessa, bruciandosi, crea intorno a sé.

       Fra le innumerevoli cose che non so c’è la faccenda della velocità della luce. Mi sono sempre chiesto: come si fa a misurare la velocità della luce? Esiste uno strumento, una specie di autovelox come quello usato dalla polizia stradale? E dove viene messo questo «lumenvelox», lungo quale viadotto o spazio aperto per cercare di fotografare (non so se in questo caso sia giusto usare il verbo «fotografare») la velocità di spostamento della luce. E come funziona? Dopo il passaggio della luce davanti al «lumenvelox» resta impressa la sua faccia su qualche supporto elettronico da cui si ricava la misura della velocità della luce? Francamente non lo so, ma credo sia molto improbabile che le cose funzionino in questo modo, con un «lumenvelox» in azione, appostato da qualche parte, come fanno i carabinieri o la polizia stradale, in attesa che passi di lì un fascio di luce che ignora che sarà fotografato.

          E tanto per dirne un’altra di cose che non so, non so perché le rane abbiano tutta quella elettricità in corpo. Quando ci penso mi viene in mente Galvani con i suoi esperimenti sulle rane, che poi non ho mai capito se le rane, usate negli esperimenti, Galvani dopo se le mangiava oppure no, magari fritte, ma questo non c’entra con il mio ragionamento, lasciamo perdere. La vera questione è: da dove la prendono, se la prendono, l’elettricità le rane? Ce l’hanno fin dalla nascita, nel DNA del girino, o è un qualcosa che accumulano nel tempo per via di un comportamento tipico della loro specie, come stare immobili ore e ore sulle pietre scaldate dal sole o spaparanzate sulle foglie che galleggiano sull’acqua degli stagni, che l’acqua è un conduttore di elettricità, se non ricordo male (in alcuni film gialli, la vittima viene folgorata immergendo un phon nella vasca da bagno), e allora potrebbe essere che le rane immagazzinano l’elettricità stando per molto tempo a contatto con l’acqua, ma lo dico così tanto per azzardare un’ipotesi, in realtà senza saperlo con precisione.

         Come non so, e non ho mai saputo, perché esistano tante lingue diverse sul nostro pianeta, una cifra spaventosa. E allora: perché un cinese o un nigeriano o un arabo parlano in modo completamente differente da un europeo o da un esquimese? Si tratta forse di un fenomeno dovuto alla conformazione fisica della bocca o delle corde vocali? Non credo, perché mi sembra che la bocca ce l’abbiamo tutti più o meno uguale, magari sono le labbra a differenziarsi da un popolo a un altro, c’è chi ha le labbra carnose e sporgenti e chi sottili come un foglio di carta, ma le labbra, per quanto ne capisco di linguaggi, non influenzano il modo di esprimersi. Comunque sia, io penso che dalla diversità delle lingue nascono tante incomprensioni e malintesi, a volte, fatali che possono portare addirittura a delle guerre. Accade la stessa cosa, in scala più piccola, quando un tizio di madre lingua italiana dice a un altro: «Che hai detto? Ripeti un po’, non ho capito», e l’altro, anche lui di madre lingua italiana, gli sferra un pugno in faccia e gli spacca il naso solo perché la frase gli è sembrata provocatoria e si è sentito aggredito; in questo caso, si farà notare, entrambi parlano la stessa lingua, cioè l’italiano, e allora non torna il discorso che le guerre sono provocate dalla diversità delle lingue. Verissimo! È l'eccezione che conferma la regola. Le guerre si scatenano anche fra persone che parlano la stessa lingua, si chiamano «guerre civili», è un fenomeno ben conosciuto ad esempio in Spagna, ma anche da noi, in Italia.

        Se poi, alla fine, vogliamo dirla tutta, lasciando da parte le difficoltà di Bohr da cui sono partito, la verità è che non so bene perché mi sto impelagando in questa riflessione, e mi ostino a snocciolare l'elenco insensato delle cose che non so, che è un elenco – l’ho già detto – lunghissimo come la Via Lattea, e forse di più, anche se a occhio non saprei quantificare la lunghezza della Via Lattea, era solo per citare un qualcosa che rendesse l’idea della lunghezza. Avrei potuto nominare, allo stesso titolo, anche la muraglia cinese, che per essere lunga lo è di sicuro, non si discute, ma non so quanto, o la distanza fra la Terra e Marte, il cui calcolo, certamente macchinoso, ignoro come venga eseguito…


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Questo testo è confluito nel mio libro di racconti
I sogni di un digiunatore e altre instabili visioni,
Exòrma, 2018, alle pp. 249-254.




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Questo testo, insieme a altri dell'editore Babbomorto,
è citato in un articolo di Massimo Gatta, Una bella irrealtà editoriale:
i librini imolesi di Babbomorto Editore
, uscito su "Charta", 158,
Anno 27, luglio-agosto 2018, pp. 38-39, per leggerlo cliccate qui.



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Questo mio testo è citato nell'incipit
della postfazione di Adrián N. Bravi
al libro di Alessandro Trasciatti,
Biografia di un biografo. Poesie 1990-2000,
peQuod, Ancona 2021, p. 185.









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