Paolo Albani
L'INTERVISTA



Lo ribadisco con forza: non rilascio interviste. Non lo faccio ormai da anni. Mi sono imposto questa regola. Quando parli con un giornalista, sai cosa ti succede? Il giornalista ti frega, senza nemmeno consultarti e farti leggere il testo dell’intervista prima della pubblicazione, nonostante ti avesse promesso il contrario, scrive quello che vuole. Anche cose che non hai mai detto né pensato.
    A me è successo molte volte. Una volta ricordo che, in un’intervista a proposito di uno dei tanti anniversari del Sessantotto, “rivolta” cui ho partecipato attivamente da leaderino delle facoltà occupate, un giornalista scrisse che odiavo Giulio Andreotti e che ai tempi del movimento studentesco gli avrei sparato volentieri nelle gambe, ma nemmeno l’avevo nominato Andreotti durante il nostro colloquio telefonico. Non so perché quel fetente di giornalista scrisse quella cosa su Andreotti attribuendola a me. Forse era lui, l’intervistatore, che avrebbe voluto sparare nelle gambe all’onorevole Giulio Andreotti, per motivi suoi personali, e si era inventato quella balla colossale del mio odio verso l’esponente democristiano.
    Vai a capirli i giornalisti. Gente inaffidabile.
   Per questo ho deciso di evitare le interviste. Non le concedo a nessuno, nemmeno se a chiedermelo fosse mia madre (anzi mia madre la scanserei come la peste, sarebbe la prima a travisare il mio pensiero, manipolatrice com’è, a mettermi in bocca menzogne, falsità che non si reggono in piedi). Meglio star lontani dai giornalisti. Sono fonte di guai. Con questo non voglio dire che i giornalisti, come categoria, siano tutti dei cani, dei “traditori/travisatori del pensiero altrui”. Ci sono giornalisti bravi, non lo metto in dubbio, potrei anche fare dei nomi, Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Andrea Barbato (il mio preferito, competente, pacato, mai una parola di troppo, ce ne fossero oggi dei Barbato negli studi televisivi), ma per evitare brutte sorprese, ho scelto un profilo basso: meglio non concedere interviste. Sopravvivo lo stesso.
    E allora perché, adesso, ho cambiato idea? Perché ho accettato di farmi intervistare?
    La richiesta viene da un redattore di «Niente di nuovo all’orizzonte», una piccola rivista on line, fondata nel 2017 da un gruppo di giovani intellettuali che si dichiarano “indipendenti” (da chi?), la cui missione culturale, come scrivono nello spazio “Chi siamo”, è trattare in modo esclusivo e battagliero (le battaglie culturali, è risaputo, sono il pane quotidiano dei “giovani intellettuali indipendenti”) ogni genere di «non novità», di tutto ciò che ha il sapore del «non nuovo», che non significa automaticamente amare «il vecchio», sposarne la dimensione. Non sono dei passatisti quelli di «Niente di nuovo all’orizzonte» (se avete tempo, leggete i loro ultimi editoriali). L’importante, per loro, è che non si analizzino o si approfondiscano problemi singolari, innovativi, strani, inattesi. Sotto il logo della rivista (le lettere NNO in caratteri grandi e stilizzati), per ribadire il concetto e dargli una sponda letteraria di rispetto, hanno messo il titolo del libro di Erich Maria Remarque Niente di nuovo sul fronte occidentale.




Erich Maria Remarque (1898-1970)
pseudonimo di Erich Paul Remak



    Le ragioni per cui, questa volta, dopo anni di rifiuti e negazioni, ho deciso di farmi intervistare sono due, che spiego subito.
    Primo perché «Niente di nuovo all’orizzonte», come recita il titolo, azzeccato e divertente, non dice davvero niente di nuovo. L’affermazione non nasconde pensieri reconditi, messaggi allusivi, doppi sensi. Va presa alla lettera. Se andate sul sito http://www.nientedinuovoallorizzonte.it/ non ci troverete nulla che già non sapete. Il loro è un repertorio di notizie e tematiche che sfondano porte aperte, di idee già collaudate, rimasticate un po’ dappertutto. Non appena si finisce di leggere un loro articolo, che, va detto, è sempre ben confezionato, viene da chiedersi: «E allora? Tutto qui? C’era proprio bisogno di scriverlo?». Difficile trovare in un articolo postato sulla rivista «Niente di nuovo all’orizzonte» rilievi stimolanti, o conclusioni che non siano scontate, ovvie, o prospettive che non risultino già superate.
    Vi sembrerà strano ma è la filosofia portata avanti dai redattori della rivista «Niente di nuovo all’orizzonte» che mi ha spinto a concedere loro un’intervista. Mi piace l’impegno con cui la rivista si adopera a non arrabattarsi in scelte sofisticate, a non disperdersi in furberie intellettualistiche, a non scendere a patti con scimmiottamenti velleitari che cercano di far apparire nuovo ciò che di nuovo non ha nemmeno l’apparenza. È un programma editoriale che, nella fattispecie, non si ritrova nel DNA di nessun’altra rivista, cartacea o on line.
    Ecco perché, quando mi hanno chiesto di volermi intervistare, ho messo da parte ogni riluttanza, e ho detto ok, nessun problema, vada pure per l’intervista. Non voglio che si pensi che faccio il prezioso.
    Il secondo motivo – non meno valido del primo – per il quale ho concesso l’intervista a Luca Tonfaroli, giovane e promettente redattore di «Niente di nuovo all’orizzonte», rivista seguita da pochi, per fortuna, altro merito che gli va riconosciuto (lo testimoniano le scarse visite sulla loro pagina Facebook), è che in cuor mio ero sicuro, sicurissimo, che Tonfaroli non si sarebbe sprecato in fantasie, limitandosi a chiedermi solo il «minimo sindacale necessario», ovvero non sarebbe andato oltre il «nulla di nuovo», nel rispetto dell’indirizzo culturale della propria testata “indipendente”.
    A conti fatti, non mi sbagliavo. Sapete cosa mi ha chiesto Tonfaroli?


settembre 2022

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