Paolo Albani
L'UOMO
È DAVVERO
 CIÒ CHE CHE MANGIA?



La frase più rappresentativa, o almeno quella che tutti ricordano, del pensiero del filosofo tedesco Ludwig Andreas Feuerbach (1804-1872), esponente di spicco della sinistra hegeliana, è: «L’uomo è ciò che mangia» (1). È una frase che, presa così nuda e cruda, estrapolata dal contesto teorico in cui nasce, non mi ha mai convinto del tutto, troppo deterministica, semplicistica. Siamo qualcosa di più degli alimenti che ingurgitiamo, direi che somigliano di più a macchine complesse, contradditorie, ma non monolitiche. E non voglio star qui a tirare fuori la questione dell’anima, il rapporto corpo-anima che ci porterebbe chissà dove, senza contare che non sono all’altezza per discettare sull’argomento, neanche per sentito dire.


                  
Ludwig Andreas Feuerbach (1804-1872)


    Poi è successo qualcosa, un episodio, un banale episodio – un invito a pranzo – che mi ha fatto ricredere, insinuando in me il dubbio, l’idea che forse Feuerbach…

 

Qualche giorno fa, domenica scorsa, vado a pranzo dai genitori del mio amico d’infanzia Ardingo (strano nome scelto dalla madre, cattolicissima, mutuato dal nome di un vescovo del X secolo, appartenente alla nobile famiglia dei Supponidi; gli amici, compreso me, lo abbiamo sempre chiamato “Ardengo”, come Soffici, più orecchiabile, o semplicemente “Dingo”). Sono anni che non ci vediamo. Ci siamo laureati in giurisprudenza lo stesso anno, il 2005, con lo stesso professore di Diritto costituzionale Francesco Tozzi. Poi ognuno ha preso la propria strada, lui è diventato procuratore sportivo, cura gli aspetti legali, commerciali e sportivi di vari atleti, io invece ho scelto il giornalismo, scrivo per un giornale della mia città, una piccola testata.

    Per le vicende di un calciatore della squadra locale che milita in serie C, un terzino assistito da Dingo, accusato di molestie sessuali, un caso che seguo per il mio giornale, ci incontriamo per caso nelle aule del Tribunale. Grandi feste, abbracci, pacche sulle spalle.

– Non sei cambiato per niente.

– Anche tu, ti vedo in forma.

Brevi riassunti delle nostre vite, poi Dingo m’invita a pranzo dai genitori, con cui vive. Fissiamo il giorno. La prima domenica del mese di luglio.

    Vi starete domandando: cosa c’entrano Feuebarch e la sua famosa frase con l’invito a pranzo di Dingo? Fra un attimo lo capirete.

     Arrivo a casa dei genitori di Dingo, una villetta in collina, verso le 12,30, come concordato. Ci mettiamo a tavola. Oltre i genitori, una coppia dall’aspetto ancora giovanile, entrambi con occhiali (devono essere lettori forti, lo intuisco anche dalle numerose librerie presenti nella casa), c’è anche la sorella di Dingo, più giovane di lui di tre anni, un tipetto magro, scattoso, capelli cortissimi e nerissimi, occhi che brillano di un riflesso sbarazzino e pungente. Parla con una sicurezza e una velocità sorprendenti. Magari è tutta una manfrina. Una difesa.

    Noto che sulla tavola rettangolare e sopra i due piani di un carrello, posizionato a fianco della tavola, ci sono dei piatti di verdure. Sono ortaggi monocolori, tutti verdi. Zucchine, piselli, fagiolini, spinaci, bietole, asparagi, cime di rape, broccoli, peperoni naturalmente verdi, cavolo cappuccio, broccoletti, alghe verdi, cicoria, tarassaco, indivia, lattuga, radicchio verde, rucola, luppolo, carciofi, prezzemolo, basilico, foglie di menta. Forse ho dimenticato qualche altra verdura, non so. Comunque, c’è un solo colore presente, il verde. È un elemento cromatico che non può sfuggire. A completare il panorama color prato, scorgo, dentro una serie di vaschette di vetro, dell’uva verde, pere, kiwi, fichi, mele e susine verdi, nergi, avocado, lime, olive.

    Suppongo che la famiglia di Dingo sia vegetariana, di un vegetariano particolare, nel senso che segua una dieta a base di verdure di un solo colore, il verde. Una famiglia verde-maniacale. Questo tipo di ortaggi e frutti (leggo in rete) è caratterizzato da una notevole quantità di carotenoidi e di clorofilla, entrambi con elevata azione antiossidante.

    – Non farti impressionare da questa batteria di piatti – dice Dingo che ha percepito il mio sbigottimento davanti allo sfoggio dei piatti monocromatici. In effetti sono sorpreso. La messa in scena non può essere casuale.

   – Mia madre segue un’alimentazione speciale, fin da piccola, come mia nonna e la mia bisnonna. È una tradizione che si tramanda di generazione in generazione nel ramo di mia madre. Un’eccentricità ereditaria – mi spiega Dingo che ride e allo stesso tempo strizza un occhio alla madre in segno di complicità. Lei scuote la testa, come a dire “Burlone!”.

– Per noi però, tranquillo, – prosegue Dingo – c’è quel che vuoi, pasta, carne, uova e ogni altro tipo di cibo da cristiani. Basta informare Marisa, la domestica, che è in cucina.

    – Sì, non preoccuparti. Io mangio di tutto – rispondo.

    Durante il pranzo, i padroni di casa sono curiosi di sapere come ci siamo conosciuti, io e Dingo.

  Mentre sto raccontando della nostra amicizia, dell’università, dell’incontro fortuito in Tribunale, del mio lavoro di giornalista, la madre di Dingo mi chiede di passarle la saliera e allunga una mano verso di me.

    È una mano sottile, lunga, segnata da venuzze trasversali, la mano di una donna che sicuramente ha superato i cinquant’anni. Prima di afferrare la saliera, m’incanto a guardarle le unghie, dipinte con uno smalto di un verde tenue. Non riesco a staccare lo sguardo dalla mano della donna protesa verso di me. Lei si accorge che le sto fissando la mano, ma non dice niente, per non mettermi in imbarazzo.

    Per fortuna interviene la figlia, decisa:

 – Vogliamo fare mezzanotte? – mi rimprovera scherzosamente, prende la saliera e la passa con un gesto veloce alla madre.

Prima che la donna ritragga la mano, che stringe la saliera, noto sul tratto dell’avambraccio lasciato scoperto dal polsino della camicetta di seta bianca una serie di macchioline verdi, un mosaico di piccole sporgenze a fior di pelle, come scaglie simili a minuscole foglioline di lattuga.

Dopo la mia esitazione nel porgere la saliera, mi giro sulla destra verso la madre di Dingo per scusarmi («E di che?» dice lei, sorridendo gentile) e mi accorgo, vedendola da vicino, che sul collo della donna, quasi a formare una piccola collana, una strisciolina squamosa, sono presenti delle lamelle, frammenti di verdura spezzettata color verde.

Siedo a fianco di una donna-vegetale? L’unica spiegazione che mi viene spontanea è che la madre di Dingo abbia, sotto il vestito, un body a maniche lunghe con disegni decorativi in rilievo di verdure verdi che le sporgono dal collo e dai polsi.

Prima di tornarmene a casa, vado in bagno passando davanti a un mobile pieno di foto della famiglia di Dingo, una specie di altarino laico come se ne vedono nei salotti della medio-alta borghesia. Ci sono lui e la sorella da piccoli (già in fasce la sorella mostra un’aria indisponente), i genitori il giorno del matrimonio, elegantissimi e raggianti, un soldato con l’elmetto e una divisa della Prima guerra mondiale, ancora i genitori in gondola a Venezia, un picnic sull’erba, una gita scolastica, un gruppo di sciatori, e tante altre, disposte in duplice, triplice fila.

Mi cade l’occhio sul ritratto, contornato in una forma ovale, di una vecchia signora, che immagino sia la nonna di Dingo. La foto è di un colore seppia sbiadito, tipico delle fotografie di un secolo fa.

Dingo mi conferma:

– Questa è mia nonna Gisa, la madre di mia madre.

La donna ha i capelli raccolti in un’ampia crocchia, come usava un tempo. Li aveva così anche mia nonna. Non ho mai capito come riuscissero a tenere i capelli in quel modo, in equilibrio, attorcigliati sulla nuca. Mi avvicino alla foto incorniciata in un vecchio portafotografie d’argento. Mi chino per guardare meglio. Forse mi sbaglio, in quel punto del salotto la luce è scarsa, ma ho l’impressione che al posto dei capelli la nonna di Dingo abbia un cesto d’insalata.

 

Per amore di completezza, mi preme rimarcare che in La scienza naturale e la rivoluzione, dopo l’arcinota e discussa frase «L’uomo è ciò che mangia», Feuerbach aggiunge:

 

Chi si nutre solo di cibi vegetali si riduce a un essere che vegeta, privo di energia per agire (2).

 

 

 

Note

 

(1) La prima volta che Feuerbach scrive la frase «L’uomo è ciò che mangia» è verso la fine di una lunga recensione al trattato divulgativo Dell’alimentazione (1850) del medico fisiologo olandese Jakob Moleschott (1822-1893), recensione intitolata La scienza naturale e la rivoluzione, apparsa a puntate nel 1850 in vari numeri della rivista «Blätter für literarische Unterhaltung», ora anche in Ludwig Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, saggio introduttivo e cura di Andrea Tagliapietra, traduzione di Elisa Tetamo, Bollati Boringhieri, Torino 2017, pp. 42-72.

 

(2) Ludwig Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, cit., pag. 69.



luglio 2022

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