Paolo Albani
NIKSEN



Due giorni fa, in una conversazione su whatsapp, cazzeggiando come facciamo spesso, un amico mi dice che gli olandesi hanno una parola, la parola niksen, per indicare il «non fare niente». Mi piace la parola «niksen», mi suona bene, mi ricorda alla lontana, anche per il «ni» iniziale e la «s» che hanno in comune, nisba, parola altrettanto bella, derivante dal tedesco «nichts», una deformazione gergale del tedesco nichts che significa «niente», «nulla», usato da noi specialmente in risposte recise o conclusive: “Hai qualcosa da aggiungere?”. “Nisba”. Guardate su Lo Zingarelli 2024.
    Il che vuol dire che se uno mi chiedesse: «Cosa fai oggi?», io gli risponderei: «Niksen», se l’interrogante fosse un olandese; mentre se fosse un italiano, un amico o mio cugino non fa differenza, e la domanda fosse: «Hai qualcosa da fare oggi?», io non esiterei a dirgli: «Nisba».
    Perché oggi – sarà che sono stressato, annoiato, svaporizzato o per qualche altra ragione che mi sfugge – ho deciso che per me è una giornata niksen o nisba, ovvero una giornata in cui ho deciso di non fare niente. Di girarmi i pollici, come dicono dalle mie parti.
    A dire il vero, questa cosa qui, il niksen olandese, significa in modo più estensivo e preciso «non porsi obiettivi per ogni azione che si compie». Esistono diversi libri sull’arte, perché di un’arte vera e propria si tratta, del niksen, fra cui, tradotto in italiano, uno di Annette Lavrijsen, intitolalo Niksen. L’arte di non fare niente per vivere slow (Giunti 2021). La Lavrijsen, leggo sul web, è una giornalista freelance che scrive, tra le altre cose, su salute, psicologia e natura, va regolarmente nei boschi, non usa il telefono, niente WiFi, con la prospettiva di rinnovare le proprie energie.



    È qui che casca l’asino, cari miei.
    Sembra facile non fare niente, girarsi i pollici e basta, in realtà è un’impresa complicatissima, ardua. Non è che uno se la cava sdraiandosi sul divano a fissare il soffitto, e resta lì, immobile come un chiodo infilato a metà in un'asse di legno, tutta la giornata. Per di più, dal punto di vista logico, il fatto di non fare niente è, se proprio vogliamo essere pignoli pignoli, fare qualcosa, indipendentemente dal significato che si attribuisca al niente da non fare.
    A parte questa (illusoria) incongruenza, che lascio a coloro che si baloccano con i trabocchetti della logica, penso che la strada migliore, la più fruttuosa, da imboccare per delineare il non fare niente sia al principio mettere mano alle cose che uno intende non eseguire, che si propone di evitare, da cui sceglie di astenersi.
    Il primo passo per aderire al mio niksen giornaliero, al nisba che mi sono dato come obiettivo, è stendere un elenco delle cose da non fare.
   In altre parole, trovo conveniente procedere per sottrazione, per gradi successivi di cancellazione, fino a quando, stringi stringi, non resta che un residuo insignificante, una sorta di niente compresso, riverbero rappresentativo del non fare niente ricercato.
    Ad esempio, oggi, 11 marzo, io, per ottemperare al desiderio di non fare niente, mi metto di buzzo buono e m’impegno, con tutte le mie forze e senza alcun sostegno esterno, a non:

    – leggere libri, giornali, riviste di ogni genere, su carta e on line;
    – scrivere nessun tipo di testo (questo che state leggendo è un pre-testo, cioè scritto ieri);
    – cucinare (lo faccio di rado, di solito compro piatti già pronti dalla mia gastronomia);
    – mangiare nulla (è sempre più di moda la pratica del digiuno);
    – fare le pulizie;
    – telefonare;
    – controllare la posta elettronica;
    – mandare messaggi con whatsapp o telegram;
    – guardare la televisione;
    – ascoltare la radio;
    – ascoltare musica;
    – passeggiare;
    – ridere;
    – piangere;
    – tossire;
    – soffiarmi il naso;
    – alzare la voce;
    – stare in silenzio;
    – aprire cassetti;
    – fare una poesia visiva;
    – ricordarmi dei tempi passati;
    – lavarmi;
    – vestirmi;
   – andare all’Ufficio postale per vedere se c’è qualcosa nella mia casella postale 313;
    – grattarmi la testa;
    – inveire;
    – parlare da solo;
    – guardare fuori dalla finestra;
    – spararmi un colpo alla testa (scherzo, non ho nemmeno la pistola);
    – accendere il riscaldamento;
    – stampare un documento;
    – temporeggiare;
    – prendermi sul serio;
    – rifare il letto (un’incombenza che detesto);
   – cambiare una lampadina che si è fulminata (tengo una riserva di lampadine per l’occasione);
    – stirarmi una camicia;
    – aggrottare le sopracciglia;
    – fingere che tutto vada per il meglio;
    – abbassare la guardia;
    – giustificarmi;
    – fare lo stupido…

    Fare lo stupido?
   
Eh, no. Un momento. Andiamoci piano. Riflettiamo con calma.
   Su quest’ultimo proposito di esenzione (quante volte mi sono sentito dire «dài, non fare lo stupido»), la più dura da mettere in pratica, come scalare una parete di settimo grado («abominevole», nell’accezione francese delle difficoltà alpinistiche), non garantisco nulla.



marzo 2024

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