Paolo Albani
LO SCRITTORE 
CHE VOLEVA DIVENTARE OULIPIANO

 
La prima riunione dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), fondato da François Le Lionnais e Raymond Queneau, si svolse il giovedì 24 novembre 1960, nella cantina del ristorante «Il Vero Guascone» a Parigi. Storicamente l’OuLiPo è una delle Sottocommissioni di Lavoro del Collegio di ‘Patafisica, «scienza delle soluzioni immaginarie» architettata da Alfred Jarry. 
Come si deduce dal nome del gruppo, gli oulipiani si occupano di «letteratura potenziale», ovvero di una letteratura che al momento non esiste, ancora da farsi, da scoprire all’interno di opere già scritte o da inventare attraverso l’uso di nuove procedure linguistiche, attraverso il rispetto di regole, vincoli, costrizioni, come ad esempio scrivere un testo senza mai usare una determinata lettera. 
Per questi signori, per lo più matematici e scrittori, la costrizione (contrainte) è uno strumento creativo, paradossalmente «un inno alla libertà d’invenzione», capace di allargare le «potenzialità visionarie» di uno scrittore, di risvegliare in lui, come dice Calvino, «i demoni poetici più inaspettati e più segreti». E poi esiste sempre la possibilità di «une légère dérive» in grado di distruggere il sistema delle regole, uno scarto giocoso e liberatorio che Perec chiama clinamen (nella fisica epicurea, una deviazione spontanea e imprevista degli atomi).
Sotto i buoni auspici della letteratura «à contraintes», sono nati gli Exercices de style di Queneau, La vie mode d’emploi di Perec e Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino.
Una volta Queneau, forse soprappensiero,  ha definito gli scrittori oulipiani: 

topi che costruiscono da sé il labirinto da cui si propongono di uscire.

 Il riferimento ai «topi» di Queneau - si apprende dalla quarta di copertina del libro di cui ci occupiamo - è stato il pungolo che ha fatto scattare nell’animo di Giorgio Pardini, analista-programmatore svizzero, non nuovo a spericolate «prove d’artista» (due anni fa editò un video di due ore e mezzo sulla forma delle mani dei pianisti), il desiderio di diventare uno scrittore oulipiano.
Per costruire il suo romanzo, I topi di Babilonia (Bellinzona, Casapiccola, pp. 148, Euro 12,00), Pardini si è dato delle regole precise, tutte in qualche modo riconducibili all’emblematica figura del topo.
 A partire dalla storia stessa, che è incentrata sul ritrovamento fra le rovine di un palazzo babilonese, all’inizio del secolo XX, di un antico cilindro con scrittura cuneiforme che il protagonista, l’archeologo inglese Tony Pollard (le prime due lettere del nome e cognome formano la parola «topo»), cerca di decifrare con l’aiuto della sua assistente Moira Useful (lo stesso meccanismo, anche qui, crea la parola «mouse», cioè «topo» in inglese).
 Nel cilindro sono descritti, guarda caso, quattro bassorilievi (quattro come le lettere della parola «topo») raffiguranti dei grandi roditori, fatti eseguire dal re Marduk-apla-iddina e destinati ad un’ala dell’edifico facente parte dei famosi Giardini Pensili, una delle sette Meraviglie del Mondo.
 La relazione che Pollard redige sull’antico documento babilonese rivela, ad un’attenta lettura, la presenza di una serie di parole che hanno tutte una caratteristica in comune, sono rigorosamente di quattro lettere di cui la prima è una «t» e l’ultima una «o»: 

talo, taro, taso, tato, teco, telo, temo, teso, tifo, timo (in un primo tempo, scambiando la «t» con la «l», Pollard scrive erroneamente «limo», omaggio fin troppo scoperto ai Figli del limo di Queneau), tino, tipo, tiro, toco, tofo, togo, tolo, tomo, tono, toro, toso, toto, trio, tubo, tufo, turo e tuto.

 Il primo capitolo de I topi di Babilonia si apre con la descrizione minuziosa di una cena nell’ambasciata francese di Bagdad, cena le cui portate sono tutte a base di formaggio. Anche gli altri tre capitoli del romanzo ostentano all’inizio chiare allusioni ai formaggi: 

La pelle di Madame Robillard, si legge ad esempio nelle prime righe del terzo capitolo, era bianca e flaccida come un pezzetto di tenero stracchino dentro un piatto di porcellana.

 Ogni pagina del romanzo di Pardini è un susseguirsi di acrobazie e funambolesche manipolazioni linguistiche. Vi sono poesiole d’amore in forma d’acrostico («Tesoro mio, / Oggi il tuo volto, / Più argenteo che mai, / Ò visitato in sogno») o lunghi periodi lipogrammati, privi delle lettere «o», «p» e «t», che scorrono per pagine intere, come in questa il cui incipit è: 

Era una ragazza di una bellezza lunare, ma fragile, simile ad una farfalla in balia di una brezza crudele. In fede sua, Claudine si augurava di vivere felice a Bagdad, insieme alla madre, e vagheggiava un avvenire senza macchie... All’alba, una bufera di sabbia fece cadere le vecchie mura della casa in cui risiedeva il generale Biddle. Claudine udì dei sibili, quindi le grida di un mullah che fuggiva dalla medina in fiamme.

 Gettate qua e là ad arte lungo il flusso della narrazione s’incontrano parole-valigia (topazio da «top-o + s-azio»; topiario da «top-o + d-iario»; toponimo da «top-o + an-onimo»; toppa da «top-o + map-pa»; il neologismo tossulta da «to-po + su-ssulta» che esprime un modo secco, stridente di tossire); paginate di tautogrammi in «t»; logogrifi (top, Po, op!); centoni con brani presi da autori che hanno parlato di topi: ben riconoscibile è quello copiato da Il primo libro delle favole di Gadda: 

Il topo, penetrato nel credenzone, vi messe tutto a soqquadro: pur d’arrivare a le polpette.

Ed ancora palindromi: la carovana che, a metà romanzo, attraversa una striscia del deserto di Al Hamad, è guidata da un certo Opot; un’infinità di monovocalismi: Pollard, rapito da un gruppo di fanatici religiosi che vive nell’oscurità delle grotte sulle montagne Zagros, ascolta i lamenti di uno dei suoi carcerieri prostrato ai piedi di una gigantesca colonna con una testa di topo sporgente dall’estremità: 

O profondo Topo, io sono goffo, provo sconforto, non trovo sonno, soffro molto.

Vi sono metagrammi su cui si esercita Brett, figlio dodicenne dell’assistente di Pollard: 

topi-tipi-tifi-tufi-gufi-guli-muli-mulo-melo-meco-mico-mici

e persino un anagramma, dissimulato in un frammento di dialogo fra Pollard e l’amico Mulay:

- Adesso ti senti meglio, più leggero? - disse Pollard appoggiandogli una mano sulla spalla.
- Sì, come quando poto un albero da frutta.

dove poto, prima persona del presente indicativo del verbo «potare», è per l’appunto l’anagramma di «topo». 
 Il romanzo ha un epilogo drammatico. Una notte senza luna, Pollard tenta la fuga dalla grotta in cui è tenuto prigioniero, ma viene scoperto in prossimità del recinto dei cammelli. Di nuovo imprigionato, muore «tra orrende punizioni orientali».
 

giugno 2003



Apparso anche su il Caffè illustrato, 13/14, luglio-ottobre 2003, pp. 10-11.
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