Paolo Albani
L'OPLEPO
E I PLAGIARI PER ANTICIPAZIONE



 «Ci capita a volte di scoprire» - scrive il matematico e scacchista François Le Lionnais in Le second manifeste (1973) dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle) - «che era già stata scoperta o inventata nel passato, e anche nel lontano passato, una struttura che avevamo creduto perfettamente inedita. Ci facciamo un dovere di riconoscere un simile dato di fatto qualificando i testi in questione come "plagi anticipati"» (Francois Le Lionnais, «Le second manifeste», in: Oulipo, La littérature potentielle, Paris, Gallimard, 1973, pp. 19-23; trad. it. Oulipo. La letteratura potenziale (Creazioni Ri-creazioni Ricreazioni), a cura di Ruggero Campagnoli e Yves Hersant, Bologna, Editrice Clueb, 1985, pp. 22-27). 
Dunque un «plagiat par anticipation» è un testo strutturato oulipianamente prodotto in epoca anteriore alla nascita dell’OuLiPo che risale al giovedì 24 novembre 1960. Circa un mese dopo la prima riunione, e cioè il 19 dicembre 1960, grazie all’intervento «particolarmente felice» di Albert-Marie Schmidt, professore di Letteratura alle Università di Caen e di Lille, la bizzarra congrega che fino a quel giorno si chiamava Séminaire de littérature expérimentale prende il nome di Ouvroir de Littérature Potentielle. 
 Per inciso ricordiamo che nel paragrafo IX dei suoi Palimpsestes (1982) dedicato ai «giochi oulipiani» Genette usa il termine oulipema per indicare un testo prodotto dall’OuLiPo e oulipismo per designare invece un testo scritto, anche anteriormente, alla maniera di un oulipema (Gérard Genette, Palinsesti, Torino, Einaudi, 1997, p. 46). In questo senso «plagiat par anticipation» e «oulipismo» si riferiscono allo stesso fenomeno.
Da tutto ciò ne segue, per estensione, che l’espressione «paradossale e provocatoria» di «plagiario anticipato o per anticipazione» indica l’autore di un «plagio anticipato o per anticipazione». Fra quelli che stanno a cuore al gruppo francese troviamo Laso, poeta e musico greco vissuto nella metà del VI secolo a.C., autore di poesie in forma di lipogramma, secondo Curtius «il più antico artificio sistematico» della letteratura occidentale (Ernst Robert Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, Roma, La Nuova Italia, 1992, p. 314), il poeta latino Decimo Magno Ausonio, maestro di centoni, il trovatore provenzale Arnaut Daniel, inventore della sestina, e poi, più vicini a noi, Edgard Allan Poe che in The Philosophhy of Composition (1846) mostra come nessun particolare della sua poesia più nota The Raven (Il corvo) «sia attribuibile al caso o all’intuizione» e come egli abbia proceduto «passo dopo passo, sino al compimento, con la precisione e la rigida coerenza di un problema di matematica»; e ancora Lewis Carroll, Raymond Roussel e Unica Zürn, autrice di sublimi poesie anagrammate.

In Italia l’OpLePo (Opificio di Letteratura Potenziale) nasce a Capri il 3 novembre 1990. Prima di quella data lo spirito oplepiano aleggia sulle patrie lettere, ostentando i suoi bravi paladini. L’oplepismo nostrano conta importanti precursori.
 Cronologicamente parlando il primo riferimento non può che andare alla figura di un grande palindromista, anagrammista e compilatore di centoni: padre Anacleto Bendazzi (1883-1982) che nel 1951 licenzia le sue Bizzarrie letterarie, un libro vertiginoso di giochi verbali in gran parte di argomento sacro (Anacleto Bendazzi, Bizzarrie letterarie, Ravenna, Presso l'autore nel Seminario di Ravenna,1951, e Bazzecole andanti, a cura di Stefano Bartezzaghi, Milano, Vallardi, 1996; sulla vita di Bendazzi: Franco Gabici, Sulle rime del don. Vita e inediti di don Anacleto Bendazzi, Ravenna, Edizioni Essegi, 1996).

Fra i primi anticipatori delle sperimentazioni di stampo oplepiano si può annoverare Bruno Munari che nel 1944 realizza il suo ABC Dadà, un abbecedario artistico in cui, a ogni lettera (21) dell'alfabeto italiano, corrisponde un piccolo testo tautogrammatico illustrato con vari oggetti: «Andrea ama gli angioletti / e attacca anelli assortiti / alla palandrana di Ade [intorno a una lettera A dorata vi sono l'immagine in bianco e nero di un fanciullo, alcuni anelli veri incollati e l'immagine a colori di un angioletto]», «Bice ha il babbo bigliettaio / e abbottona i busti / alle balie buone», «Camillo, accoccolato sul comò / cuoce conchiglie e corde di carta / nella cioccolata», ecc., fino alla lettera Z «Zitti zitti / suoniamo lo zufolo / che zazà ammazza le zanzare / con la zampa».

All’inizio degli anni sessanta, Nanni Balestrini compone alcune poesie con l’ausilio del calcolatore elettronico (Poesie pratiche. 1954-1969, Torino, Einaudi, 1976). Il procedimento usato da Balestrini per creare le sue poesie combinatorie si basa sulla divisione in «elementi», cioè in gruppi di poche parole legate sintatticamente, di tre brani:

1. «L’accecante globo di fuoco si espande rapidamente trenta volte più luminoso del sole quando raggiunge la stratosfera la sommità della nuvola assume la ben nota figura di fungo» (dal Diario di Hiroshima di Michihito Hachiya).
2. «La testa premuta sulla spalla, i capelli tra le labbra, giacquero immobili senza parlare finché non mosse le dita lentamente cercando di afferrare» (dal Mistero dell’ascensore di Paul Goldwin).
3. «Mentre la moltitudine delle cose accade io contemplo il loro ritorno; malgrado che le cose fioriscano esse tornano tutte alla loro radice» (dal Tao te King di Lao-Tse).

Le istruzioni per il calcolatore sono le seguenti: a) effettuare combinazioni di 10 elementi sui 15 dati, senza permutazioni e ripetizioni; b) costruire catene di elementi tenendo conto dei codici di testa e di coda (cioè: la testa e la coda degli elementi vanno saldate grammaticalmente, ad esempio: «i capelli tra le labbra» + «assume la ben nota forma di fungo» diventa «i capelli tra le labbra assumono la ben nota forma di fungo»); c) evitare la contiguità di elementi derivati dallo stesso brano; d) suddividere le catene di 10 elementi in 6 versi di 4 «unità metriche» ciascuno (ecco un elemento diviso in unità metriche: «La testa - premuta - sulla spalla - trenta volte»).
 In qualunque modo combinati i tre testi di partenza producono un senso preciso. Il trattamento imposto da Balestrini è solo uno dei tanti possibili:

Tape Mark I

La testa premuta sulla spalla, trenta volte
più luminoso del sole io contemplo il loro ritorno,
finché non mosse le dita lentamente e mentre la moltitudine
delle cose accade, alla sommità della nuvola
esse tornano tutte alla loro radice e assumono
la ben nota forma di fungo cercando di afferrare...

All’area sperimentale appartengono anche L’oblò (Feltrinelli, Milano, 1964) di Adriano Spatola e le «Poesie a schema multiplo» di Renato Pedio apparse sul numero 2, pp. 12-14, della rivista Malebolge del 1967.
 Nel primo caso si tratta di uno pseudo-romanzo in cui l’elemento combinatorio si snoda in una sequela di storie indipendenti, assemblate in modo casuale, una sorta di «cadavere squisito» il cui percorso può essere scelto a piacere dal lettore (cfr. Renato Barilli, «Spatola», in: La neoavanguardia italiana. Dalla nascita del «Verri» alla fine di «Quindici», Bologna, il Mulino, 1995, pp. 257-263). L’operazione spatoliana ricorda, in un certo qual modo, il libro composizione n. 1 di Marc Saporta (cognome che sembra un anagramma di Spatola) uscito presso l’editore Lerici nel 1962, dove la libertà del lettore di leggere il romanzo disponendo come crede l’ordine delle pagine è totale. Anche perché le pagine del romanzo sono davvero sciolte, libere, separate le une dalle altre. Nella copertina si dice: «Mescolate le pagine come un mazzo di carte e leggete», mentre la fascetta che tiene unite le pagine riporta questa frase dal sapore queniano: «TANTI ROMANZI QUANTI SONO I LETTORI. L’ordine delle pagine è casuale: mescolandole, a ciascuno il “suo” romanzo».
Le «poesie a schema multiplo» di Pedio, scritte su tre colonne, offrono la possibilità di leggere - ci dice l’autore – un determinato fatto di cronaca (la distruzione di Longarone sotto la diga del Vajont) «in una ventina di modi diversi, molti dei quali identici. Calcolo che esistano, però, cinque o sei buone letture valide».

 In senso stretto la storia dell’oplepismo italiano si apre con la costituzione dell'«Istituto di Protesi Letteraria» (IPL), curiosa accademia che inizia la sua attività come Seminario Permanente di Letteratura Sperimentale all'interno di quel formidabile laboratorio culturale che fu la rivista il Caffè, fondata nel 1953 e diretta da Giambattista Vicàri (per una storia dell’IPL: Paolo Albani, a cura di, Le cerniere del colonnello. Antologia degli scritti dell'Istituto di Protesi Letteraria, Firenze, Il Ponte alle Grazie, 1991). 
 Riguardo alle finalità, negli scritti ufficiali dell'Istituto si parla della «produzione automatica di letteratura italiana», di «un'azione da compiersi nella sfera e secondo gli stimoli della genetica combinatoria» che, com'ha scritto Calvino, «smuova l'enciclopedia del possibile», di «una disponibilità intellettuale e spirituale che possa consentire un automatismo distensivo e liberatorio in questi truculenti tempi di tensioni velleitarie e di problematiche gelide».
 Il programma dell'Istituto prevede, nelle intenzioni dei suoi fondatori, una serie infinita di generatori inimmaginabili di cui si offre un primo elenco di esempi, ripreso dall'edizione Gallimard  dell'antologia oulipiana La littérature potentielle (Créations Re-créations Récréations) del 1973: Intarsi, Centoni, Olorime, Zagagliamenti, Crittografie, Giochi polisemici, Poesie tangenti, Racconti intersecati, Racconti a cassetti, Tautogrammi o Circoli Viziosi, Versi eurofallici (croissants), Contrazioni alfabetiche, Teste-coda anastrofiche, Permutazioni, Poesia antonimica, Lipogrammi, Chimere, Tautofonie, Racconti diramati, Trasformazioni per proiezione, ecc.
 I primi lavori dell'IPL, apparsi sul numero 5-6, 1975 della rivista, sono: Mongòlital e Bacedìfo di Giampaolo Dossena; il Saggio di letteratura pitagorica. Il numero segreto delle "Città invisibili" di Italo Calvino di Cesare Milanese; Giocate con me[erda] di Saverio Vòllaro, quindi L'ipotesi nodulare di Cesare Landrini e altri frammenti della Nuova vasellina sinfonica di Guido Ceronetti. Successivamente, sul numero 2, 1977, gli esercizi dell'IPL si arricchiscono de I neologissimi di Luigi Malerba e de Il Dahlia Anagrammatico. Saggio strutturale di Gianni Nicoletti. Sul numero 3, 1977 escono poi 3 esercizi di protesi letteraria e 1 esercizio letterario di protesi politica ancora di Vòllaro e un altro saggio di Dossena intitolato Le cerniere del colonnello (in precedenza, sul numero 1, 1977, Dossena aveva pubblicato gli Pseudobifronti, un affresco, ricco di esemplificazioni e di riferimenti bibliografici, su «uno dei giochi più belli di tutte le lingue alfabetizzate»: il gioco del palindromo e del bifronte; l’articolo è privo dell’intestazione riguardante l’IPL, menomazione che, sullo stesso numero, colpisce anche il Piccolo sillabario illustrato di Calvino).
 Una curiosità. Il 6 ottobre 1981 Perec tenne all'Alliance française di Melbourne una conferenza intitolata «Discussione sulla poesia». Durante il dibattito gli fu chiesto se esistevano gruppi simili all'Oulipo in altri paesi. Perec rispose che ce n'erano in Germania, in America e anche in Italia. Per quest'ultimo paese citò l'«Istituto d'ipotesi [sic] letteraria» che «è - disse - leggermente più scherzoso di noi, ma la cosa non ci dispiace» (Georges Perec, Entretiens et conférences, volume II 1979-1981, a cura di Dominique Bertelli e Mireille Ribière Joseph K. 2003, nota 27 a p. 292).

 Fra gli scrittori vicini all’attività dell’IPL sono citati anche Giorgio Manganelli e Umberto Eco, entrambi a pieno titolo etichettabili come «plagiatori per anticipazione» dell’OpLePo.
 Il primo - scrittore visionario fedele a un’immagine «manieristica» della letteratura come costruzione artificiosa di un mondo surreale - è autore di Centuria (Milano, Adelphi, 1979), una raccolta di «cento piccoli romanzi fiume», brevi narrazioni non più lunghe di un foglio che vanno a comporre «una vasta ed amena biblioteca». In un’intervista apparsa sull’Avanti! dell’8 aprile 1979 Manganelli spiega la genesi del libro: «Avevo per caso molti fogli da macchina leggermente più grandi del normale, e mi è venuta la tentazione di scrivere sequenze narrative che in ogni caso non superassero la misura di un foglio: è un po’ il mito del sonetto, cioè di una struttura rigida e vessatoria con la quale lo scrittore deve necessariamente misurarsi. Ma il fascino è tutto qui: in un tipo di scrittura che ti obbliga all’essenziale, che ti costringe a combattere contro l’espansione incontrollata. Insomma, credo che se non avessi avuto quei fogli non sarei mai riuscito a scrivere questo libro» (il corsivo è mio).
 In un’altra intervista pubblicata su Libération del 29 maggio 1985, in occasione dell’uscita della traduzione francese di Centuria, Manganelli è ancora più esplicito sulla «natura artificiosa» del libro: «Un soir où j’étais de mauvaise humeur, j’ai eu l’idée d’utiliser ces feuilles en me tenant au nombre de lignes qu’elles comportaient. Une idée, un récit par feuille: la première que j’ai écrite est la première à figurer dans le livre, de même pour les autres: rien n’a été modifié, amélioré ou transformé. Je ne devais écrire que sur les rectos, jamais continuer au verso; l’autre règle était de ne pas construire d’histoires qui se suivent, ni même que les personnages se retrouvent. Chaque récit devais se suffire, quitte à ce que certaines situations se ressemblent. J’ai mis un mois à écrire le livre» (il corsivo è mio). Costrizione, regola: le indicazioni di Manganelli sono chiare: ne esce, come scrive Paola Italia, «un organismo compatto e dalla struttura calibratissima, in cui l’esercizio di stile si unisce al divertissement del gioco combinatorio» (Paola Italia, «Note al testo», in: Giorgio Manganelli, Centuria. Cento piccoli romanzi fiume, Milano, Adelphi, 1995, pp. 283-303).
 I «cent petits romans-fleuves», presentati da un Prologue di Italo Calvino, hanno un grande successo in Francia dove esperimenti come Centuria si ricollegano alle «ricerche dell’avanguardia francese, quali ad esempio l'OULIPO di Queneau e Perec» (Paola Italia, op. cit., p. 296).
Ma l'inclinazione oplepiana di Manganelli affiora anche sul terreno saggistico. Nel saggio «Avanguardia letteraria» (1994) Manganelli definisce gli scrittori d’avanguardia «puntigliosi escogitatori di artifici, un poco pedanti, intelligenze naturalmente inclini agli aspri e lucidi gaudi dell’acrostico, dei tecnopegnia, dei glifi, intenti agli austeri estri combinatori del linguaggio», definizione che aderisce bene a quella dello scrittore di letteratura potenziale.
 Per Manganelli gli scrittori d’avanguardia sono «letterati in quanto fanno letteratura d’artificio», a suo dire «l’unica che sia legittimamente denominabile letteratura. L’amore delle combinazioni improbabili, la scelta e la coltivazione di sintassi ostiche, ardue, inospiti; insomma, la scelta delle strutture, di strutture arbitrarie e rigorose». L’idea manganelliana di «una letteratura come artificio; fatto non sentimentale, non privato, e nemmeno demonico, non morale, non sociale, ma sommamente arbitrario e, insieme, rigoroso» è molto in sintonia con quella oulipiana dove un testo costruito secondo regole precise apre la molteplicità potenziale di tutti i testi scrivibili secondo quelle regole e dove dunque «la struttura è libertà» perché produce il testo e nello stesso tempo la possibilità di tutti i testi virtuali che possono sostituirlo (Italo Calvino, «Introduzione» a: Raymond Queneau, Segni, cifre e lettere, Torino, Einaudi, 1981, pp. V-XXIII).

«A mio avviso» - scrive Manganelli -«si dà propriamente letteratura solo dove ci troviamo di fronte a strutture [...] Non si scrivono poesie e romanzi per parlare direttamente al lettore, né per coprirlo della tenera fanga dei nostri sentimenti, né per educarlo a nobili sentimenti: ma, al contrario, perché, pur leggendo parole che potrebbero essere in diversi contesti anche sentimentalmente attive, le scorga nel loro valore strutturale, come ordine, disegno, organismo impersonale; anche macchina». In conclusione «la letteratura, ben lungi dall’esprimere la ‘totalità dell’uomo’, non è espressione, ma provocazione; non è quella splendida figura umana che vorrebbero i moralisti della cultura, ma è ambigua, innaturale, un poco mostruosa. Letteratura è un gesto non solo arbitrario, ma anche vizioso: è sempre un gesto di disubbidienza, peggio, un lazzo, una beffa; e insieme un gesto sacro, dunque antistorico, provocatorio» (Giorgio Manganelli, «Avanguardia letteraria», in: Il rumore sottile della prosa, Milano, Adelphi, 1994, pp. 72-77).

 L’attività pre-oplepiana, cioè anteriore al 1990, di Umberto Eco è vasta e multiforme. Il suo centro attrattivo è naturalmente legato alla traduzione (del 1983), che in molti casi si concretizza in una vera e propria ri-scrittura, nel senso di re-invenzione, dei novantanove Exercises de style (1947) di Raymond Queneau. Rimanere fedeli al gioco di Queneau - afferma Eco - significa capirne le regole, «rispettarle, e poi giocare una nuova partita con lo stesso numero di mosse» (Umberto Eco, «Introduzione» a: Raymond Queneau, Esercizi di stile, Torino, Einaudi, 1983, pp. V-XIX).
In qualche modo ispirato alla performance queniana (almeno nel ricorso al numero 99) è un testo che compare sul numero 5-6 del 1972 de il Caffè, firmato da un Anonimo Ginevrino e attribuito a due noti studiosi di linguistica e semiologia di cui la rivista conserva l’anonimato, firma dietro la quale si nascondono Umberto Eco e Tullio De Mauro: si tratta di Novantanove proverbi strutturalisti «particolarmente consigliabili ad alunni delle scuole materne, ispettori della pubblica istruzione, crociani della Riserva, elzeviristi, attori di cabaret, rettori magnifici, dirigenti di programmi culturali alla TV, compilatori di lunarî». Eccone un piccolo, gustoso campione: 

Chi Lacan l’aspetti. 
Tanto va il fonema al codice che ci lascia la variante. 
Il Propp stroppia. 
Chi non Cratilo non critica. 
Vedi Peirce e poi Morris. 
Volere il significante pieno e il messaggio ambiguo. 
Codice che appaia non Morse.

 All’idea di letteratura combinatoria - si pensi ai Cent Mille Milliards de Poèmes (1961) di Queneau - rimanda uno scritto del 1972 intitolato Do your movie yourself dove, ipotizzando l’avvento di un’era in cui tutti possono farsi un film da soli grazie all’uso del videoregistratore, Eco presenta una serie di «soggetti multipli» ordinati per vari registi come Michelangelo Antonioni, Jean Luc Godard, Ermanno Olmi, Luchino Visconti, ecc. In pratica si tratta di questo: l’utente acquista un «plot pattern», cioè una «gabbia» di soggetto multiplo che può riempire con una serie molto ampia di combinazioni standardizzate. Con un solo pattern, accompagnato dal pacchetto delle combinazioni, si possono fare, per esempio, 15.751 film di Antonioni. Come? Si parte da un basic pattern così strutturato: Unax distesay desolataz. Ellak si allontanan. I richiami alfabetici che stanno come esponente indicano le trasformazioni possibili: x = due, tre, infinite; un reticolo di; un labirinto di; un; y = isola, città, snodi di autostrade, Autogrill Pavesi, e così via. Il basic pattern alla Antonioni può dunque generare altri film come: Un labirinto di Autogrill Pavesi con visibilità incerta. Lui tocca a lungo un oggetto (Umberto Eco, «Do your movie yourself», in: Diario minimo, Milano, Mondadori, 1986, pp. 138-146).
 Fra i molteplici esercizi cui Eco si dedica con grande diletto, sempre prima del 1990, qui assunta come data spartiacque, vi sono testi monovocalici - nella rubrica di Dossena su Il Venerdì di Repubblica (numero 45 del 28 ottobre 1988, p. 178) ne appare uno in E, «L’ente e l’esente»: «Sedete, gente, leggete le certe tessere del Sefer! Esse necesse est...» - e lipogrammati (due in A sul leopardiano Passero solitario sono antologizzati in Guido Almansi e Guido Fink, Quasi come, Milano, Bompiani, 1976, pp. 301-302; altri in Umberto Eco, Vocali, Napoli, Alfredo Guida Editore, 1991, e nel Secondo diario minimo, Milano, Bompiani, 1992).
 Il 22 febbraio 1987 Eco pubblica su L’Espresso una prima serie di ircocervi, una sorta di parole-valigia prodotte dalla fusione di due nomi famosi cui viene accompagnata una definizione del nuovo personaggio. Il termine «ircocervo» designa un mostro mitologico, metà caprone (irco) e metà cervo. La regola del gioco impone di fondere insieme il nome di due personaggi noti, in modo che al nuovo personaggio si assegni un’opera inedita che ricordi tuttavia alcune caratteristiche dei due personaggi originari, senza escludere qualche altro richiamo ambiguo. Sono proibite le combinazioni che, anche se danno origine a un bel titolo, non sono giustificate da una immediata associazione fonetica o grafica tra i due nomi di partenza (Umberto Eco, Secondo diario minimo, op. cit., p. 295). 
Ecco alcuni esempi di ircocervi:

Agatha Cristo                 Dodici piccoli apostoli
Achille Bonito Olivolà      Saclart
Billy Wilde                     A qualcuno piace Ernesto
Carlo Emilio Gadamer     L’interpretazione del dolore
Cesare Pavesi                Biscotti dei paesi tuoi
Fred Asterix                   De ballo gallico
Gustave Flaubrecht         Madame Courage

 Nel 1998 prende forma una versione visiva dell’ircocervo dovuta al grafico e disegnatore Massimo Bucchi (Massimo Bucchi, ‘900, Roma, I libri di Edizioni la Repubblica,1998).
Più tardi, il 12 luglio 1992, Eco presenta una variante del gioco degli ircocervi inventando un nuovo artificio che chiama «finneghismo», ovvero una parola composta accompagnata da una definizione plausibile, sul tipo di:

arfabeto: sistema di scrittura per cani; 
cornitologo: etologo che studia l’adulterio tra uccelli;
oromogio: Swatch che suona solo le ore tristi;
vampirla: discendente inabile del conte Dracula.

 L’idea di quest’esercizio viene a Eco durante un lavoro sul Finnegans Wake (1939) di James Joyce (Umberto Eco, «Un gioco per l’estate? La Duomocraxia», L'Espresso, 28, 12 luglio 1992, p. 190; «I giochini estivi colpiscono ancora. Invito a partecipare ai Finneghismi», L'Espresso, 29, 21 luglio 1995, p. 170; «La professoressa che non ne indovina una. Nuova collezione di "finneghismi"», L'Espresso, 41, 15 ottobre 1995, p. 266; «Mi scuso per i giochini. Sono utili. Servono ai ragazzi delle scuole», L'Espresso, 49, 10 dicembre 1995, p. 258).
A proposito dei funambolismi linguistici di Eco va detto infine che alcune delle sperimentazioni verbali contenute nella sezione «Giochi di parole» de Il secondo diario minimo - un pangramma eteroletterale dove vengono usate una sola volta tutte le 26 lettere dell’alfabeto, i tautogrammi che sintetizzano la vita di un personaggio o il senso di un’opera usando soltanto parole con l’iniziale del personaggio eponimo, diverse poesie anagrammate - sono prive dell’indicazione dell’anno di stesura. Resta così impossibile stabilire se il gioco sia anteriore oppure no al 1990, anno significativo dal punto di vista plagiaristico.

Altro reduce dell’IPL è Guido Almansi che già su il Caffè si era cimentato in una «ri-scrittura» de L'infinito leopardiano e in varie mistraduzioni, cioè avventurose e avventate traduzioni dove, ad esempio, il verso di John Keats «Season of mists and mellow fruitfulness» viene reso con «Stagione di brume e molli fruttiferinità» (si veda «Versi in proprio e mistraduzioni» ne il Caffè, 7-8, 1974, pp. 12-15).
 Fra gli esercizi almansiani si contano lipogrammi (come quello in E, O, I, U da Cesare Pavese: «Varrà la Marta a avrà a ta acca»), poesie rovesciate (Un distico dantesco: «Poco villano e disonesto spare / Il maschio tuo quand’egli a lei s’ammuta»), variazioni sulla vispa Teresa (Guido Almansi, Maramao, Milano, Longanesi, 1989, pp. 49-54 e pp. 95-104).

Nel 1967 Edoardo Sanguineti, attuale (2005) presidente dell'OpLePo, pubblica da Feltrinelli il romanzo Il giuoco dell'oca. Nella quarta di copertina si legge: «Questo Giuoco è composto di 111 numeri [nel senso che il romanzo è suddiviso in 111 capitoletti, n.d.r.], e può anche servire a giocare fino a 79. Ciò deve convenirsi prima di cominciare la lettura. Per giocare ci si serve di due dadi numerati dall'1 al 6, e si tira chi debba giocare per primo, e si conviene la posta al giuoco. Colui che fa 12 va al 110 e ci trova SUPERGIRL, e può tirare una volta sola con un solo dado; se per caso l'1 venisse, egli ha finito il romanzo».
 Al 1982 risale, invece, l’Alfabeto apocalittico, scritto in 21 ottave per la grande Apocalisse di Enrico Baj, pittore antesignano dei patafisici italiani, il cui nome figura fra gli «invitati d’onore» dell’OuLiPo. Sanguineti lesse il suo alfabeto in occasione della vernice dell’esposizione a Mantova, in forma teatralizzata, con il volantinaggio dei singoli testi presso il pubblico presente, sopra foglietti variamente colorati, simili ai vecchi «pianeti della fortuna» (Edoardo Sanguineti, «Alfabeto apocalittico», in: Bisbidis, Milano, Feltrinelli, 1987, pp. 79-101). Si tratta di poesie tautogrammate dall’A alla Z come questa:

giocate al giuoco mio, grassi giganti,
giratemi il mio gozzo, con i guanti:
gigantesse, godete al mio godere,
grosso è il gallo se gramo è il giocoliere:
grande ghianda mi è il glande con la gomma,
gratto le grotte, gratterò la gromma:
generali & gendarmi, gente giusta,
giunto è già il giorno, & chi lo gusta, gusta:

 In precedenza (Stracciafoglio. Poesie 1977-1979, Milano, Feltrinelli, 1980) Sanguineti aveva scritto poesie acrosticate, in cui l’acrostico rende il nome del destinatario (Ugo Nespolo, Octavio Paz, ecc.) o parole-chiave (landscape, maggio, PCI) o frasi (Sanguineti amat), in quest’ultimo caso con l’aggiunta di un’altra costrizione, cioè il tautogramma:

 Se Sa Sedurti Soltanto un Sonetto,
 Archetipo d’Amaro Amore Assente,
 Nasconderò Nei tuoi Nomi il mio Niente,
 Golfo mio, mia Girandola, mio Ghetto
[...]

Fra il 1984 e il 1987 Sanguineti compone poesie come la seguente che inizia così:

  questa frase (8, 7) da ventaglio, non firmata, non datata, è un ritaglio banale,
 da un giornale:
   un uomo, che porta GE sopra una spalla destra, suda, per una sega,
 seriamente, lì alle prove con una lignea e liscia cosa numero 9: seguono due finestre,
 con le imposte quasi del tutto aperte, legate da un’L:
 [...]

 È un vero e proprio rebus senza disegno, la cui soluzione è: «genovese galante» (Edoardo Sanguineti, «Rebus», in: Bisbidis, op. cit., pp. 37-67).

Al termine del nostro breve viaggio fra alcuni dei «plagiari per anticipazione» più significativi dell’OpLePo ci premono ancora due considerazioni. 
La prima riguarda Rodolfo J. Wilcock (1919-1978), straordinario scrittore italiano di origine argentina, amante di fatti inquietanti, di mostri e di folli letterari, poeta, drammaturgo e traduttore, fra gli altri, di testi di Christopher Marlowe e James Joyce. Calvino lo propose come membro dell’OuLiPo, motivo più che sufficiente, crediamo, per accostare senza forzature il nome di Wilcock a quello dei plagiari per anticipazione. 
Ne La sinagoga degli iconoclasti (Milano, Adelphi, 1972), fra i profili di esseri che, poggiando sulle solide basi della scienza o comunque di una qualche disciplina che si presenta rigorosa, si sono mossi verso la demenza, Wilcock riporta il caso dell’orologiaio francese Absalon Amet che, nel Settecento, inventa e fabbrica il Filosofo Meccanico Universale, un apparecchio, grande come un’intera stanza, in grado di produrre una quantità quasi infinita di frasi, combinando una serie di vocaboli (sostantivi, avverbi di ogni sorta, congiunzioni, negazioni, verbi sostantivati, ecc.) scritti su delle targhette disposte a loro volta su ruote dentate caricate a molla e regolate nel loro movimento da uno speciale congegno a scatto che periodicamente ferma l’ingranaggio. Con la figlia Marie Plaisance, Amet pubblica nel 1774 a Nantes il libro intitolato Pensées et Mots Choisis du Philosophe Mécanique Universel, una raccolta di frasi «pensate» dalla macchina, fra cui una di Lautréamont: «I pesci che nutri non si giurano fraternità», un’altra di Arthur Rimbaud: «La musica sapiente manca al nostro desiderio», una di Jules Laforgue: «Il sole depone la stola papale», e ancora altre frasi sorprendenti per l’epoca: «Tutto il reale è razionale»; «Il bollito è la vita, l’arrosto è la morte»; «L’inferno sono gli altri»; «L’arte è sentimento»; «L’essere è divenire per la morte».

Infine un richiamo a due personaggi che non sarebbe azzardato far rientrare nella schiera dei cosiddetti «fous littéraires».
Il primo è Giovanni Finazzi (?-1833), medico, per alcuni anni sindaco di Omegna, autore di un opuscolo su Le invenzioni del Dottor Fisico Cusiano che ha come sottotitolo: «Descrizione di un vegetabile anticonsultivo, di un trebbiatojo, di una barca innaufragabile e di un metodo di passeggiare sulle acque». A Parigi Finazzi concepisce, redige e stampa un libro intitolato L’oracolo della Sibilla Cusiana, la cui prima edizione italiana esce a Napoli presso la tipografia Palma nel 1835; successivamente il libro viene ristampato in altre città, fra cui Milano: un’ottava edizione a cura dell’editore e libraio milanese Angelo Monti porta la data del 1855 (noi abbiamo consultato un’edizione del 1982 stampata per conto della Libreria Il Punto di Omegna).
Che cos’è L’oracolo della Sibilla Cusiana? È un libro divinatorio, strutturato per interrogare la Sibilla Cusiana, da Cusio, che è il lago d'Orta situato nelle Prealpi piemontesi. Il libro «permette un gioco divinatorio paragonabile a quello dell'I Ching o I King. Il postulante formula una domanda. Sulle lettere delle parole che costituiscono la domanda si effettua una prima serie di operazioni numeriche; i risultati rimandano a tabelle complesse, dalle quali si ricavano (con pazienza, attenzione e un po' di estro) responsi in endecasillabi a rima baciata» (Giampaolo Dossena, Enciclopedia dei giochi, 3 voll., Torino, Utet, 1999, II, p. 512).
 Dunque L’oracolo della Sibilla Cusiana è a suo modo un testo di «letteratura combinatoria» basato sugli stessi principi dei Cent Mille Milliards de Poèmes di Queneau, anzi, secondo Dossena, perfino «più bello e più utile».
Ispirata al procedimento elaborato da Finazzi è una «poesia» scritta da Rodolfo J. Wilcock e Francesco Fantasia, intitolata esplicitamente L’oracolo della sibilla cusiana (Rodolfo J. Wilcock e Francesco Fantasia, Fra Teleprocu, Milano, Adelphi, 1976, p. 21). 

Il secondo personaggio anomalo è Carlo Cetti (1884-?), autore eclettico, la cui fertile produzione comprende novelle, trattati di mnemonica, testi di critica letteraria, di poesia, di politica, di economia, di filosofia morale, di satira, di storia, di pedagogia. Che cosa ha fatto Cetti? Muovendo dalla teoria del «brevismo», da lui ideata nel 1946, ha riscritto, in ben 196 pagine, una versione semplificata dei Promessi Sposi del Manzoni. 
 Ne La lingua si perfeziona e progredisce tendendo a brevità (Teoria del brevismo). Appendice: Dell'arte narrativa (Como, Edizioni «Il ginepro», 1946) Cetti espone i princìpi del «brevismo», teoria che individua nella brevità del linguaggio un mezzo per la perfezione dello stile. Nel libro, scritto in forma di dialoghi fra diversi personaggi indicati come «Studente», «Cugino», «Ingegnere», «Dottore», ecc., Cetti sostiene che «la prima cosa cui, parlando o scrivendo, si deve badare, è la parsimonia sillabica, quindi, in ogni caso, alle parole, o locuzioni lunghe, si dovran preferir le brevi». 
Quando il «brevismo» avrà esaurita la sua funzione e la nostra lingua avrà raggiunto un grado di brevità oltre il quale non si può andare senza venire meno alla chiarezza, allora - argomenta Cetti - potrà sorgere un nuovo movimento: lo «stacchismo» il cui fine è dare a ogni periodo il conveniente stacco concettuale da quello che lo precede. 
Ma il vero «capolavoro» nella produzione letteraria del Cetti, oplepiano malgré lui, è il Rifacimento dei Promessi Sposi (Como, a cura dell’Autore, Soc. Arti Grafiche S. Abbondio, 1965) dove il «brevismo» trova la sua realizzazione più originale e profonda.
Nella versione cettiana il famoso brano manzoniano: 

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a restringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio a destra e un’ampia costiera dall’altra parte; e il ponte, che ivi congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile all’occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago cessa, e l’Adda ricomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le rive, allontanandosi di nuovo, lascian l’acqua distendersi e rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni.

diventa visibilmente più breve:

Quel ramo del Lario [nome tradizionale del lago di Como, n.d.r.] che, tra due catene di monti e tutto seni e golfi, volge a sud, quasi a un tratto si restringe e, tra un’ampia costiera a manca e un promontorio a destra, prende corso di fiume; mutazione resa più evidente da un ponte che unisce le due rive lì ove termina il lago e l’Adda ricomincia, per riprendere poi nome di lago, ove esse riaprendosi, lasciano spaziare le acque in nuovi golfi e seni.

«La mia mente,» - scrive Cetti nell'autobiografia - «a differenza di quel che avviene per la maggior parte degli uomini, non accoglie le idee da altri, ma le produce» (Carlo Cetti, Autobiografia, Como, a cura dell’autore, Soc. Arti Grafiche S. Abbondio, 1961, p. 48).


Fonte
: Oplepo, La Biblioteca Oplepiana, Bologna, Zanichelli, 2005, pp. 21-28. 

Questo testo costituisce la base su cui si è articolata la mia relazione, intitolata Calvino e i plagi anticipati, tenuta al Convegno "Calvino e il potenziale", organizzato da caprienigma, e svoltosi a Napoli nei giorni 26-28 ottobre 2005. Il testo compare nel libro Italo Calvino. Percorsi potenziali, a cura di Raffaele Aragona, Manni, San Cesareo di Lecce, 2008, pp. 33-42. Il libro, con un testo inedito di Ermanno Cavazzoni, è ristampato nel 2023 da in riga edizioni di Bologna.

Per un aggiornamento di questo testo cliccate qui.

Il testo è citato nel libro di Luigi Mascheroni, Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web, Aragno, Torino, 2019, p. 154.

Per andare o tornare al menu dei miei saggi sui "plagiari per anticipazione" cliccate qui.



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