Paolo Albani
LA RAPPRESENTAZIONE


  

Sono convinto che alla fine tutto nella vita si risolva in un problema di rappresentazione. «IO SONO CIÒ IN CUI MI RAPPRESENTO» si potrebbe dire con una battuta. Se questo è vero, chiediamoci a cosa si riduce la figura dello scrittore in termini di rappresentazione materiale, intendendo con ciò «lo spazio concreto occupato dall’esito del suo lavoro».

In parole semplici, rischiando di cadere nel banale, la fisicità rappresentativa di uno scrittore si riassume in un piccolo oggetto rettangolare, formato da un insieme di fogli rilegati, a mano o a macchina, fogli su cui sono stampate in nero parole a caratteri più o meno grandi, una serie di lettere alfabetiche che, messe una dietro le altre, finiscono per comporre frasi più o meno di senso che siamo soliti definire «narrazione».

   Ecco, senza troppi fronzoli teorici, la proiezione rappresentativa di uno scrittore è riassumibile in questo minuscolo oggetto, che misura pochi centimetri in altezza, larghezza e profondità, chiamato LIBRO. Lo scrittore è la condensazione materiale del libro che ha prodotto. Se di libri ne ha scritti più di uno, lo scrittore verrà rappresentato da un certo numero di questi oggetti cartacei che, nell’arco di una vita, possono occupare – a essere generosi – lo spazio di un paio di scaffali di una libreria, ognuno dei quali lungo 60-70 cm circa.

      Tutto qui. Lo spazio del lavoro di uno scrittore si esaurisce (o, se preferite, si racchiude, si comprime) nello spazio di pochi centimetri. Uno, due scaffali di una libreria, al massimo. Davvero una piccola cosa, insignificante. Se poi pensiamo alla forma che oggi il libro ha assunto, cioè se consideriamo il libro digitale o e-book, allora lo spazio diventa un fatto puramente virtuale; le opere complete, tutte le opere – mettiamo – di un grande scrittore come William Shakespeare entrano comodamente dentro una chiavetta elettronica, non più grande di un dito di una mano. L’abilità scrittoria, la fantasia, l’incalcolabile sapienza letteraria di Shakespeare si concentrano e finiscono dentro lo spazio di una piccola chiavetta elettronica facilmente trasportabile nel taschino di una giacca. Tutto il lavoro artistico del grande Bardo, non una parola di meno, non una parola di più, è completamente custodito, raccolto dentro una chiavetta. Ci pensate? È un fatto che ha dell’incredibile.

    A fronte della miniaturizzazione del lavoro creativo di uno scrittore, possiamo mettere, sul piano opposto, lo spazio occupato, ad esempio, dalle opere di un architetto o di un ingegnere: grattacieli, musei megagalattici, ponti con arcate lunghissime, edifici religiosi di dimensioni stratosferiche che s’innalzano verso il cielo a dialogare con Dio, aeroporti, vie di comunicazione che superano asperità morfologiche del terreno, dislivelli paurosi, montagne, corsi d’acqua. Il lavoro di un architetto o di un ingegnere si vede, è ben visibile, eccome si vede, perbacco. È un lavoro che s’impone per la sua voluminosità, talvolta impressionante, esagerata. Dev’essere una bella soddisfazione per figure professionali come queste – architetti, ingegneri – ammirare il progetto da loro realizzato con la cooperazione dello sforzo di migliaia di lavoratori e di mezzi meccanici tecnologicamente avanzati, vederlo in tutta la sua rappresentazione materiale, goderne con gli occhi la struttura imponente, in certi casi ciclopica.

    Niente a che spartire con le dimensioni modeste di un libro. Di fronte alle opere architettoniche o ingegneristiche che siamo abituati a vedere oggi collocate in spazi enormi, il libro è un manufatto lillipuziano. Una pulce invisibile.

   Mi si obietterà: «Le idee contenute in un libro non sono misurabili in centimetri».

    È un’obiezione ragionevole. Mi stuzzica. Allora provo a imbastire una risposta. Prendiamo ad esempio il Mein Kampf (La mia battaglia) di Adolph Hitler pubblicato nel 1925 dove, in poche pagine, è riassunto il pensiero politico dell’imbianchino tedesco di origini austriache. In esso Hitler delinea il programma del partito nazionalsocialista. Pensiamo alle conseguenze che quel libro ha avuto sul destino di milioni di persone. Un libro di ristrette dimensioni fisiche, appena 12x18,9 centimetri nella prima edizione, lo stesso adoperato per la Bibbia, un mini-oggetto è stato capace di scatenare un disastro mondiale, in termini di vite umane e di distruzione di interi paesi, mai visto prima di allora. Non c’è bisogno di sottolinearlo.

   Il dubbio è: possiamo stabilire un legame diretto, conseguenziale fra le dimensioni esigue del Mein Kampf e gli effetti orribili, devastanti sull’umanità perpetrati nella seconda guerra mondiale dall’autore di quello sciagurato libro?

La questione rimane complessa, ma francamente ritengo azzardata un simile meccanico collegamento. È noto che la seconda guerra mondiale, che spazialmente – lo dice la parola stessa – ha coinvolto gran parte del pianeta, fu il risultato di una serie di fattori economici, politici e sociali, di cui non voglio discutere ora, che va ben oltre l’importanza della diffusione di un libro. In questo senso credo si possa sostenere che il Mein Kampf non ebbe un’influenza determinante sugli avvenimenti storici di quel periodo, che si sarebbero comunque verificati, anche se il libro non fosse stato pubblicato. Non sono le idee (per quanto seducenti) a contare, a farsi valere, bensì le azioni che da esse scaturiscono.

Voglio dire con questo che un libro non esercita alcun potere persuasivo sulla vita delle persone, e lo testimonia la sua esiguità empirica, oggettiva. La sua deludente rappresentazione. Le idee contenute in un libro – qualunque libro, anche Guerra e pace di Tolstoj o I Buddenbrook di Thomas Mann – non sono importanti di per sé, lo diventano non appena quelle idee possiedono la forza di tradursi in azione. In questo caso, tuttavia, quello che conta è il comportamento fattivo, operativo dei soggetti.

Un’idea, per quanto suggestiva e penetrante, nel bene e nel male, se non trova le gambe che la sostengano, resta un pensiero vuoto, sterile.

    Il mio ragionamento sulle dimensioni di un libro, luogo rappresentativo del lavoro tangibile di uno scrittore, porta a sostenere che lo spazio fisico di un oggetto, nel nostro caso il libro, condiziona – parafrasando l’idea hegeliana che la quantità diventa qualità – la sua importanza, l’influenza che può esercitare sulle vicende umane.

   E non mi convince l’ipotesi che, per superare il problema della rappresentazione legata a un libro, basti idearne uno titanico, grande come un palazzo di sette piani, un libro-grattacielo, fuori del normale. Tale assurdità si scontra con la domanda: «Chi stamperebbe mai un libro di tali dimensioni?». Quale tipografia? E quale editore – o catena di editori – vorrebbe accollarsi i costi economici di un’impresa tanto complicata?

Senza contare le difficoltà di lettura che un maxi-libro del genere, un livre monstre comporterebbe: per sfogliarlo bisognerebbe ricorrere al braccio meccanico di una gru alta come il colosso di Rodi. C’è poi l’impossibilità tecnica di sistemarlo sugli scaffali di una libreria che dovrebbe avere dimensioni inimmaginabili.

     Per sua natura il libro ha una dimensione contenuta, non modificabile oltre un certo limite, come la forchetta o il martello. Non è dunque pensabile trasformarlo in qualcosa di chilometrico per ingigantirne le idee di cui è il contenitore.

 

   

aprile 2019

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