Paolo Albani
IL SILENZIO


            Il silenzio, in quanto mancanza completa di suoni, rumori, voci e simili come recita il vocabolario, è paragonabile al nulla che è «ciò che non esiste». E in effetti il silenzio è la non esistenza di qualunque tipo di suono, potremmo dire che è un nulla auditivo.

            Il musicista Karlheinz Stockhausen ammoniva: «Ricordatevi che il silenzio francese è ornamentale, mentre quello tedesco è organico». Dunque esistono vari tipi di silenzio, come del resto, in certe lingue, vedi l’ebraico, esistono varie parole per esprimerlo: sheqet, dom, demamah, lishtok. Elena Loewenthal le spiega così: sheqet è il silenzio della quiete, della serenità, un silenzio sommesso, pacato; lishtok è un infinito verbale (li- è semplice prefisso), indica il silenzio imperativo, quello che si impone alla parola, è ingiunzione ai bambini in classe, è un silenzio un po’ rabbioso, rivendicativo; dom invece è un silenzio abissale, fa paura, come l’ignoto; demamah infine è il silenzio come rivelazione, stupore, certezza, pace e verità.

            La cosa straordinaria, e solo in apparenza contraddittoria, quasi un ossimoro, è il fatto che sul silenzio si è scritto molto, e si continuerà a farlo, immagino: si spendono fiumi di parole, esistono vagonate interminabili di riflessioni sul silenzio. Ad esempio sull’argomento si è scritta una quantità inverosimile di libri di poesie, i poeti sono dei grandi evocatori del silenzio, dei «silenziatori» accaniti, imperterriti. Non c’è poeta che non abbia accennato almeno una volta al silenzio in un proprio verso. È più forte di loro, non ne possono fare a meno.

            «Ho bisogno di silenzio» ha poetizzato Alda Merini, senza accorgersi della palese contraddizione: bastava che non avesse scritto «Ho bisogno di silenzio» e la sua voglia di silenzio si sarebbe realizzata al di là di ogni dubbio, credo. «La più vera ragione è di chi tace» ha scritto Eugenio Montale, perdendo anche lui una buona occasione per tacere. A sentire José Saramago «Si dice che ogni persona è un'isola, / e non è vero, / ogni persona è un silenzio, / questo sì, / un silenzio, / ciascuna con il proprio silenzio, / ciascuna con il silenzio che è».

            Sembra quasi, a proposito dei poeti (ma non solo), che più si accarezza il desiderio di stare in silenzio e più viene voglia di scrivere sul silenzio, di evocarlo.

            Ora io non voglio sembrare troppo semplicista, o peggio ancora banalotto e superficiale, ma mi domando: Santissimo Iddio, se tu hai voglia di silenzio ma allora stattene zitto, taci e basta. Non c’è altra soluzione. Le parole hanno un suono, fanno rumore, scricchiolano come le travi di un vecchio pavimento di legno e perciò, dico io, se ami davvero il silenzio la sola cosa da fare è astenersi dall’uso delle parole, non parlare, non scrivere e godersi il silenzio conseguente.

            Come fanno i monaci quando meditano.

          Ecco bisognerebbe applicare la regola del silenzio praticata dai monaci. Questo è il mio suggerimento. V’immaginate se i monaci per rispettare la regola del silenzio si fossero messi a scrivere dei libri sul silenzio. Oggi nelle biblioteche dei monasteri avremmo scansie piene di volumoni, per lo più creati da amanuensi, con quei capolettera molto belli e la calligrafia arzigogolata, volumoni che trattano in abbondanza, per centinaia di migliaia di pagine, del silenzio, paginate di considerazioni sulla bontà e le virtù del silenzio, e il silenzio qui, e il silenzio là, e il silenzio sopra, e il silenzio sotto, blablablà.

            Vi siete mai chiesti perché non esistono (penso di non sbagliarmi) questi volumoni sul silenzio scritti dai monaci? Ma perché il silenzio, per i monaci, è una prassi, un comportamento quotidiano, un mezzo per l’elevazione spirituale e non una speculazione filosofico-poetica.

            È come se uno che volesse dimagrire si mettesse a mangiare di più e lo facesse adducendo la scusa che vuole capire perché il cibo lo fa ingrassare, non so se mi sono spiegato.

            Insomma voglio dire che il silenzio non si decanta, non si elogia parlandoci sopra, producendo pagine e pagine sulla sua bellezza, ma solo stando dignitosamente in silenzio, in senso stretto, fisico, ovvero non parlando e non scrivendo. Tutto qui.

            Anche le parole scritte fanno rumore, è chiaro: se scrivo la parola «silenzio» alla macchina per scrivere o al computer, sento il ticchettio provocato dai miei polpastrelli che battono sul tasto della «s», poi su quello della «i», della «l», della «e», ecc.; lo stesso vale, per quanto in misura più attenuata, se scrivo con una penna o un lapis perché lo strofinamento  sfrrrrr sfrrrrr − della punta della penna biro o stilografica o della mina acuminata del lapis sul foglio adoperato come supporto del mio testo sul silenzio è anch'esso una fonte, sia pure quasi impercettibile, di rumore. Non si sfugge a questa contraddizione.

            Per il semplice fatto di aver scritto fin qui che bisogna non scrivere o non parlare del silenzio, mi rendo conto che anch’io ingenuamente sono rimasto vittima di questa contraddizione tanto insidiosa e perciò chiudo subito il discorso, mi astengo dal proseguire sull'argomento e non appena ne avrò voglia andrò a meditare da qualche parte in silenzio sul silenzio, come un monaco laico, anche se dubito di esserne capace, perché, lo confesso, a me il silenzio fa un po’ paura, m’inquieta, chissà perché.

            Dopo qualche ora che sto in un ambiente completamente silenzioso (per esempio in montagna, come l’altro giorno nella Foresta del Teso sopra Maresca, che non ho visto anima viva per circa due ore), mi cresce dentro un  senso di leggero spaesamento, un’opprimente percezione di tristezza che ignoro da dove scaturisca.

            Magari in futuro potrei scrivere qualcosa sulla mia paura del silenzio.


agosto 2015
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