Paolo Albani
SUL CONCLUDERE
(*)



Giunto al termine di un testo, dopo il lento ripiegamento delle ultime pagine, l’autore riordina le idee e si predispone a «tirare delle conclusioni». Rientra nelle sue prerogative. È un suo diritto sacrosanto.
    Perché mai si dice «tirare delle conclusioni»? Esistono altre espressioni a cui si potrebbe ricorrere, ad esempio «mettere mano alle conclusioni», «effettuare delle conclusioni», «buttare giù delle conclusioni». Sebbene quest’ultime siano corrette dal punto di vista grammaticale, quando si riassume il succo di un testo, si fa appello quasi sempre alla prima, che tira in ballo il verbo tirare.
    In che senso si tirano delle conclusioni?
  Il verbo «tirare» si usa preferibilmente per indicare un’azione concreta: si tira uno schiaffo, un sasso in uno stagno, il collo a un pollo. Tralascio l’uso del verbo nei modi di dire «tirare per le lunghe», «tirare uno per la giacca», «tirare un ragionamento per i capelli», «tirare l’anima coi denti» e altri. In questi casi il verbo «tirare» assume un significato metaforico che lo allontana dal significato originario che è, come si legge nel dizionario, «applicare una forza su qualcosa per modificarne le dimensioni, la forma o la posizione».
    Dunque, gli elementi da considerare sono tre: dimensioni, forma e posizione.
  Riferendomi al vocabolario, quando si tirano delle conclusioni il proposito è quello di esercitare una forza che tenda a modificare in primo luogo le dimensioni del testo. E così avviene in effetti, perché, con l’aggiunta delle conclusioni, un testo si allunga. Diventa più corposo. È un fatto aritmetico. L’esistenza di conclusioni, in sé, fa in modo che le battute tipografiche di un testo crescano, germoglino a vista d’occhio.
    Allo stesso tempo si modifica anche la forma: un testo, comprensivo di conclusioni, ha una forma tendente alla finitezza. Non è composto solo dalle parti canoniche: in primo luogo da una premessa/introduzione, da una prefazione/postfazione firmate da un soggetto che può essere diverso dall’autore; in secondo luogo, da una serie di capitoli, contraddistinti da un titolo o da numeri (arabi o romani) o da altri segni (asterischi, ghirigori, parole inventate come nel Codex Seraphinianus). Adesso il testo prende un’altra forma perché contiene una parte conclusiva in cui si tirano le fila del tema svolto.
    È naturale, perciò, che l’inserimento di conclusioni provochi un mutamento nella forma del testo, nella sua struttura. Dato che, alla fine di un testo, non sempre le conclusioni sono presenti prima del sommario, dell’indice analitico (quando c’è) e del «finito di stampare», ne discende che quando le conclusioni esistono – anche se la parola a stampa CONCLUSIONI non figura in modo esplicito – ciò implica automaticamente un cambiamento nell’organizzazione formale del testo.
    Per quanto concerne infine la posizione, vediamo in che senso, tirando delle conclusioni, sia corretto asserire che si modifica la posizione del testo.
    A ben vedere, le conclusioni si collocano nell’identico spazio in cui vive un testo, non ne stanno al di fuori, in una parte separata. Voglio dire che non esiste un supplemento, un estratto (come per gli articoli su rivista) in cui vengono stampate le conclusioni. Queste sono parte integrante di un unico corpus editoriale. Anzi si può affermare che un testo – specie se trattasi di saggio – è tale solo se nel caso in cui incorpori al proprio interno delle conclusioni, privo di queste sarebbe un testo «sconclusionato», parafrasando il libro di Giorgio Manganelli Sconclusione con quell’incipit spiazzante: «Con calma, lentamente, rimisi mio padre nel cassetto».
    Qui, tuttavia, dobbiamo intenderci sulla parola posizione.
    Quando si tira un oggetto – ad esempio un piatto durante una discussione animata fra coniugi – lo si sposta da un punto a un altro, da A a B. Nel caso del piatto, che può infrangersi sul pavimento o su una parete, andando in frantumi, lo spostamento accade perché uno dei due coniugi lo afferra, da un tavolo o da una credenza, e gli fa cambiare posizione nel momento in cui lo tira dietro all’altro. Volando in aria, il piatto muta posizione per il fatto stesso di venir tirato addosso a qualcuno (qui il verbo «tirare» rende bene l’idea), e se alla fine si manca il bersaglio, è gioco forza che il piatto rovini per terra o su una parete.
    Riguardo a un testo, il cambio di posizione è di natura diversa, non fisica.
    Questo perché in primo luogo le conclusioni provocano un mutamento di posizione nel lettore, e non nel testo, in quanto costringono il primo a riflettere su ciò che ha appena letto, a confrontare le proprie aspettative con quelle che l’autore ha riassunto nelle conclusioni. Qui il ventaglio di differenze fra lettore e autore è rilevante. Il lettore è libero di pensarla come vuole.
    In secondo luogo, va preso atto che il mutamento di posizione determinatosi durante la lettura delle conclusioni è ascrivibile a una dimensione puramente mentale, che non coinvolge lo spazio. Leggendo le conclusioni il lettore è sollecitato a riflettere sulla sua posizione di osservatore. S’interroga su quanto lui, lettore, sia d’accordo o in disaccordo sulle conclusioni tirate dall’autore. Dunque, ciò che cambia nel lettore, quando si posiziona nella parte conclusiva del testo, è l’atteggiamento critico che la sua mente elabora verso ciò che ha appena finito di leggere.
    È sulla base di questi ragionamenti che si è portati a dire, a proposito di un testo, che per chiuderne l’orizzonte è necessario «tirare delle conclusioni», sfruttando tutta la gamma di elementi evocativi che il verbo «tirare» possiede. Come enuncia in modo chiaro il vocabolario, l’espressione «tirare delle conclusioni» nasce dal fatto che si applica un’energia, fisica e mentale, su qualcosa e qualcuno, il testo e il lettore, allo scopo di modificarne – come si è cercato di dimostrare in queste conclusioni – le dimensioni, la forma e la posizione.


 

(*) Nel 1777 lo scrittore e giurista scozzese James Boswell (1740-1795) scrive, con lo pseudonimo «L’Ipocondriaco», saggi su vari temi: matrimonio, prudenza, ospitalità, guerra, selvaggi, censura, distrazioni e altri. Ne pubblica settanta, l’ultimo – «Sul Concludere» – appare nell’agosto del 1783. Cfr. Brian Dillon, Vite di nove ipocondriaci eccellenti, traduzione di Alessandra Castellazzi, il Saggiatore, Milano 2020, pp. 50-51.




James Boswell (1740-1795)


giugno 2022

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