Paolo Albani
  LA TRASPARENZA

 

   Nell’albergo si entra da una porta girevole, di quelle che si muovono di continuo, pericolose, secondo me, specie per una persona anziana. Una volta dentro, nel timore di rimanervi incastrato, accelero il passo, tipo camminata di Hercule Poirot se la conoscete, e ne esco con un balzo laterale. Avanzo nell’atrio dell’albergo, semideserto in quel momento, e vicino al bancone della reception la vedo che parla con il portiere.

Mi avvicino alla donna che mi volta le spalle. A prima vista, da dietro, valuto che ha una postura corretta, il che denota una colonna vertebrale e delle scapole in buone condizioni, altrettanto si può dire dei muscoli che ne ricoprono la schiena: il trapezio, i grandi dorsali, gli infraspinati.

Approfittando del fatto che devo prendere possesso della mia stanza, mi posiziono al suo fianco lungo il bancone della reception e la osservo meglio. Rimango colpito dalla carnagione bianca, color ceramica, della donna, una donna in apparenza senza difese («acqua e sapone» diceva mia madre delle donne non sofisticate); è una visione che suscita – questo è l’effetto su di me – un senso rigenerante di vaporosità, di frescura; la lucentezza del suo viso lascia intravedere, sotto la pelle, il flusso dei pensieri, che uno s’immagina altrettanto candidi, provocando in chi la guarda un leggero sbandamento libidinoso.

       Mi schiarisco la voce e le dico:

       ‒ Mi scusi, credo ci siamo già visti, ma non ricordo né dove né quando.

      Lei non reagisce. Suppongo pensi che la domanda sia una scusa, un pretesto idiota per attaccare discorso.

       Dopo un attimo di silenzio, inaspettatamente lei risponde:

        ‒ Crede?

        ‒ Ho questa impressione. Mi sbaglio?

        ‒ Non saprei, in ogni caso non posso aiutarla.

      ‒ Una come lei non si dimentica facilmente ‒ aggiungo io, cedendo a un involontario approccio da cascamorto, che non mi appartiene. La mia timidezza è proverbiale almeno quanto la mia goffaggine con le donne.

       ‒ A quanto pare invece… ‒ incalza lei, accennando un sorriso.

      Mi stupisce che la donna, lo sguardo fermo davanti a sé, parlandomi, non si scomponga. Non lasci presagire il minimo sforzo di ruotare la testa verso sinistra per dare un volto alla voce che le si è manifestata accanto e scoprire chi sia il tizio (lo scocciatore) che le sta parlando.

     Le guardo una vena pulsare lungo il collo. In quella vena, in quel tubicino elastico, color marrone sbiadito, che ricorda un laccio emostatico, scorre il suo sangue da cui mi sento attratto, come un vampiro, pur non provando un reale desiderio di morderla sul collo, come nei film di Dracula. È un fascino che mi viene – credo – dal colore del sangue, rosso scuro, il mio preferito, e dalla vitalità che il fluido che s’irradia dal cuore, in una circolazione incessante, simboleggia.

     L’elemento sanguigno della donna, a contrasto con il suo aspetto diafano, ha un che di provocante e tenero allo stesso tempo.

      Gli occhi della donna sono di un celeste tendente al grigio, colore magnetico, da femmina slava. Le vedo perfettamente non solo l’iride dell’occhio sinistro (data la mia posizione fiancheggiante), ma anche la capsula e il nucleo del cristallino, i vasi retinici dentro la camera posteriore, una sezione della retina e un frammento del nervo ottico.

    È un occhio che, per esperienza pluriennale, riesco a mettere a fuoco senza difficoltà e questo non sembra turbare minimamente la donna che continua a sorridere mentre porge il documento al portiere dell’albergo.

    Il naso della donna, il rilievo del suo splancnocranio, ha la punta orientata leggermente verso l’alto, alla francese. Le narici sono strette. Le cartilagini e i muscoli hanno una forma regolare.

Il suo respiro è lento, impercettibile. Lo si nota, il respiro, dal seno che si muove, si gonfia a un ritmo cadenzato sotto la camicetta aperta fino al secondo bottone. Del seno lasciato scoperto dalla camicetta, riesco a vedere, allenato in questi dettagli, i tessuti adiposi, un tratto appena accennato dei lobuli e dei muscoli pettorali.

    La donna ostenta una trasparenza disarmante, incantevole. È il lato che più mi attrae di lei.

   Le sue mani, mani affusolate da pianista, poggiate sul bancone della reception, tamburellano nervosamente in attesa che l’operazione di registrazione sia ultimata. Da quel gesto intuisco che la donna ha fretta, è in partenza. Sono mani che non nascondono la loro struttura ossea. Il carpo, che compone il polso, presenta otto ossa disposte su due file, una prossimale, comprendente scafoide, semilunare, piramidale e pisiforme, e una distale, formata da trapezio, trapezoide, capitato e uncinato; anche le falangi delle dita hanno le consuete quattordici ossa.

   Osservando le mani della donna, mi viene da pensare – è un pensiero idiota, non da professionista – a quante carezze avranno regalato, quelle mani, a un compagno o a una compagna, anche indugiando sulle parti intime, più sensibili del loro corpo, oppure a un figlio o a un genitore. Quando vogliono, con il loro movimento terapeutico, persuasivo, le mani sanno dispensare emozioni, suscitare passioni, coinvolgimento.

  Il portiere dell’albergo restituisce il documento alla donna. Lei ringrazia, si volta dirigendosi verso la porta girevole, ignorandomi. Mi aspettavo un saluto, sarebbe stato carino da parte sua, invece niente.

    Mi giro a guardarla mentre si allontana. Mi soffermo sui suoi polpacci, lasciati scoperti da una minigonna non esagerata che le fascia i glutei generosi. Il gastrocnemio, formato da due capi, mediale e laterale, ciascuno dei quali prende origine dalla parte superiore del corrispondente condilo femorale e dalla parte adiacente della capsula articolare del ginocchio, è ben modellato, né troppo massiccio come quello di un’atleta, né troppo esile, da modella anoressica. Non esito a verificare che i due capi, che formano i corrispondenti margini inferiori della fossa poplitea, sono collegati in modo appropriato al ginocchio mediante un tendine che si espande a ventaglio per dare origine alle fibre dei corrispettivi ventri muscolari.

    Per quanto mi è dato vedere, la donna ha un corpo armonioso. Il suo stato di trasparenza, non so quanto dipendente da una non provata fragilità d’animo, mi sollecita a darle un soprannome, per gioco, mentre lei si lascia assorbire nel vortice della porta girevole e scompare in strada; pensando all’architettura di Paul Scheerbart, la chiamo «la donna di vetro».

   Alla reception arriva il mio turno. Il portiere dell’albergo mi saluta come sempre cordialmente:

– Ben arrivato, dottor Lupori. Le abbiamo riservato la camera della scorsa settimana.

     – Grazie.

   Sul bancone, è rimasto il modulo della registrazione della «donna di vetro» che ho appena incontrato. M’incuriosisco. Nonostante il modulo sia capovolto rispetto alla mia visuale, senza farmi vedere dal portiere, allungo il collo e riesco a decifrare il nome dell’ospite: FRANCESCA TRIGGIANI, e anche il suo indirizzo, entrambi scritti in una calligrafia ondulante, scomposta, ma comprensibile.

Il nome non mi è nuovo.

Se non ricordo male, tempo fa, ho fatto una risonanza magnetica a una paziente con quel nome.



 luglio 2018

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