Paolo Albani
UBIQUITÀ

   


Se sono qui non posso essere allo stesso tempo da un’altra parte, per esempio laggiù. È una verità incontrovertibile, dato che non possiedo il dono dell’ubiquità (o onnipresenza), che è la capacità di trovarsi in ogni luogo nello stesso momento. Di solito questa capacità è attribuibile solo a Dio, che può essere presente contemporaneamente in ogni posto del creato, visto che il creato – è opinione diffusa – l’ha creato Lui, l’Onnipotente (per chi ci crede), e perciò Lui è ovunque.

Fin qui il discorso non fa una piega.

Altra faccenda sono la bilocazione e la multilocazione, proprietà più deboli attribuite a certi santi come Santa Caterina de’ Ricci, Sant’Antonio da Padova e San Francesco d’Assisi: i corpi di questi santi, quand’erano in vita, potevano essere avvistati contemporaneamente in due o più luoghi diversi, erano qui ma anche là e altrove, a seconda della personalità del santo, presumibilmente vestiti allo stesso modo, con gli stessi atteggiamenti loquaci e gli stessi gesti, lo stesso tono di voce, lo stesso sguardo e tutto il resto. Due gocce d’acqua spazialmente lontane.

     Mi spiego con un esempio. Siamo nel 1220, o giù di lì, e può accadere che uno affermi di aver visto Francesco d’Assisi parlare affabilmente con un lupo nel «contado d’Agobio», ai bordi di un bosco, e che un altro lo smentisca, dandogli del bugiardo, perché giura invece di aver visto Francesco in quello stesso istante all’interno di una chiesa pregare insieme ai suoi confratelli. Nascono discussioni animatissime: «Idiota, ti ha dato di volta il cervello. Non era Francesco, hai avuto un’allucinazione!» «Forse sei tu che non ci vedi bene, cretino!» I due si rimproverano a vicenda di essere dei visionari, in certi casi rischiano di trascendere e di arrivare alle mani, se non fosse per gli amici che li separano.

Chi dei due è il bugiardo? Nessuno: la verità è che hanno ragione entrambi perché il Santo, cioè Francesco d’Assisi – loro tuttavia non possono saperlo – è in grado di trovarsi nello stesso istante in luoghi diversi.

     Questa caratteristica dell’ubiquità è contemplata anche nella tradizione vedica e buddista che ammette che certi soggetti con particolari inclinazioni, attraverso l’uso di tecniche yoga, pratiche ascetiche, preghiere e meditazione, possano manifestarsi in più luoghi diversi.

      Una volta Umberto Eco ha scritto – non ricordo più dove, forse in una Bustina di Minerva – di aver scoperto con grande meraviglia e divertimento che in un certo giorno di un certo mese di un certo anno lui sarebbe stato presente in molte manifestazioni culturali organizzate in diverse città del mondo. Cos’era successo? Un miracolo? No. Semplicemente i responsabili di alcune istituzioni – università, biblioteche, fondazioni, musei, ecc. – l’avevano invitato a parlare e senza attendere la sua risposta, per procurarsi più spettatori (Eco era un personaggio famoso), avevano messo sul foglio informativo dell’evento il suo nome fra i probabili oratori; alla fine per quella precisa data, mettiamo il 12 giugno 2011, Eco figurava essere in contemporanea a New York, a Lisbona, a Parigi, a Calcutta, a Milano e in tante altre città ancora.

La cosa sarebbe stata fattibile se Eco avesse tenuto una conferenza in collegamento Skype con le istituzioni chiamate in causa dal suo articolo (internet è ubiquo moltiplicando la nostra presenza in ogni dove), il fatto è che le informazioni di quelle istituzioni sostenevano però che il semiologo alessandrino sarebbe stato presente in carne e ossa, e non virtualmente su uno schermo, in tutti quei posti diversi, attribuendogli, senza volerlo, il dono dell’ubiquità e dunque in un certo senso santificandone l’immagine pubblica.

   Esaurita questa specie di introduzione, adesso veniamo ai fatti che mi riguardano di persona, che poi si riassumono in questo singolo fatto, davvero fuori del comune (l’espressione è in genere usata per attirare l’attenzione del lettore). Da qualche tempo – sarà quasi un anno – ho scoperto di avere il dono dell’ubiquità (forse sarebbe più corretto parlare di multilocazione), senza con ciò volermi accomunare al Padreterno o ai santi, che farei ridere i polli e sarei da rinchiudere in una clinica psichiatrica. Lasciamo fuori la religione, per carità.

Il fatto che io possieda il dono dell’ubiquità non è uno scherzo, una battuta, come quando si dice che uno è ubiquo perché «te lo ritrovi sempre dappertutto», come il prezzemolo, ovvero che è un presenzialista. Sto parlando seriamente. Per quanto possa sembrare strano, riesco a trovarmi in più luoghi diversi nello stesso momento, e lo intuisco, cioè lo sento quando sono preso dall’ubiquità, avverto perfettamente (e fra poco svelerò in che modo) che diverse immagini di me, diversi multipli della mia persona sono presenti, vivono e si muovono in spazi diversi, simultaneamente.

È una sensazione forte, a livello di pelle, che si alimenta di proiezioni luminose.

 

     Ora vi racconto quando e come ho scoperto di essere ubiquo.

È una tiepida mattinata di un sabato che sul calendario corrisponde al 26 ottobre dell’anno scorso; il mio orologio segna le 11:43. Il clima è ancora primaverile, molte persone indossano magliette a maniche corte. Sono a Firenze, in un’affollata via dei Calzaioli, sto andando a comprarmi un paio di pantaloni da Coin, e mentre entro nel negozio, un attimo dopo aver oltrepassato il banco dove si vendono i profumi, come in un film di fantascienza, appare davanti a me, all’altezza degli occhi, senza che l’abbia deciso io, un piccolo schermo su cui viaggia una sorta di pellicola a colori riproducente immagini tridimensionali in movimento. A prima vista sembra un ologramma.

Sullo schermo vedo un altro me stesso che passeggia in piazza del Duomo a Milano; quest’altro me stesso porta uno zainetto dietro la schiena e s’incammina verso Palazzo Reale per visitare la mostra Guggenheim. La collezione Thannhauser, da Van Gogh a Picasso; poi, dopo alcuni minuti, l’immagine cambia e ci sono sempre io sullo schermo, ma ora sono a Parigi lungo la Senna, ho una baguette sottobraccio e mi soffermo a guardare dei libri usati su una bancherella. L’immagine cambia di nuovo, rapidamente, a un ritmo sostenuto, è faticoso star dietro ai continui passaggi di fotogrammi in movimento; questa volta riconosco un altro me stesso che sta scendendo da un pullman a due piani carico di turisti e si dirige (mi dirigo) verso lo zoo di Berlino, spero tanto che fra gli animali ci sia qualche esemplare di rinoceronte, in assoluto il mio animale preferito.

      Il movimento non si esaurisce qui, continua. Le immagini dove compare la figura di un altro me stesso, un multiplo-gemello di me, una copia esatta di quello che sono allo stato presente delle cose, si susseguono velocemente, come se qualcuno proiettasse delle diapositive su un mio fantomatico viaggio in giro per il mondo. I filmati sullo schermo vanno avanti per un paio d’ore, circa. Poi d’un tratto lo schermo di fronte ai miei occhi (l’ologramma) perde di luminosità, s’abbuia piano piano e scompare. Puff, nell’aria non rimane più niente.

     È così che ho scoperto di avere il dono dell’ubiquità, guardandomi sullo schermo di quella specie di ologramma apparsomi davanti agli occhi. A sentire il mio analista – lo riferisco solo per amore di verità, ma non vuol dire che la verità del mio analista sia quella più attendibile – non si tratta di un ologramma, ma di qualcosa di più complesso. Secondo lui l’ologramma è una metafora, un luogo immaginario, frutto della mia fantasia, un punto dove si concentrano le proiezioni del mio inconscio, sapete come sono gli psicanalisti, e da quello che ne deduce lui queste proiezioni rappresenterebbero il mio desiderio represso di evadere dal quotidiano, di movimentare la mia vita (ecco perché le immagini cambiano di continuo), di perdermi in nuovi spazi per scrollarmi di dosso il peso di un’esistenza piatta e insignificante, eccetera eccetera.

     «Tesi convincente», dico al mio analista, congedandomi al termine dell’ultima seduta. Anche se in realtà penso il contrario. Appena uscito dal suo studio, in strada, davanti ai miei occhi si palesa di nuovo l’ologramma. Si formatta in un secondo.

Sono a Firenze, verso le 18:16, in via dei Bardi all’altezza del numero 15, in un grigio pomeriggio di un lunedì che sul calendario corrisponde al 4 novembre 2019, e però, attraverso le immagini che scorrono sullo schermo del mio ologramma, vedo che alla stessa ora dello stesso giorno, manifestandosi l’ubiquità, sono anche in altri luoghi, lontani fra loro migliaia di chilometri, qualcuno anche oltre l’oceano Atlantico.

Ritengo non ci sia nulla di male a essere ubiqui, scelgo perciò di andare avanti e di godermi tranquillamente lo spettacolo, alla faccia della tesi del mio analista.



dicembre 2019


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