LE ORE ADDOSSO Mi sento le ore addosso. È un’espressione che ho coniato io, fa parte del mio «lessico familiare». Per me “sentirsi le ore addosso” significa che, quando mi sveglio al mattino, di solito presto, mettiamo d’estate, che fuori ancora fa buio, e non c’è un filo di luce che penetra dalla finestra di camera mia, e devo andare in bagno “a far prendere un po’ d’aria al canarino” (come diceva il mio babbo), senza nemmeno aver visto la sveglia sul comò, penso tirando a indovinare: “Sono le cinque”. Guardo la sveglia e ci ho azzeccato, sono davvero le cinque, le cinque in punto, precise, spaccate. Naturalmente questo succede anche in altre stagioni, ma nelle stesse condizioni: il risveglio mattutino. Mi sveglio, e penso: “Sono le cinque” (ormai l’avrete capito, io in genere mi sveglio a quell’ora, mi sveglio ma non è detto che mi alzi, perché magari il più delle volte resto a poltrire nel letto ancora un po’, sapeste quanto mi piace quel tempo che resto a poltrire dopo essermi svegliato, una goduria sublime), guardo la sveglia, o il cellulare, non fa differenza, che mi porto a letto, e constato, prendo atto che sono proprio le cinque, né un minuto di più né un minuto di meno. Le cinque, la stessa ora che ho pensato svegliandomi al mattino. Si direbbe che ho un orologio interno, o biologico, che mi permette di regolare i miei ritmi e processi interni, il ciclo sonno-veglia, sulla base della temperatura corporea, la pressione sanguigna e la produzione di ormoni, e chissà cos’altro ancora. Questo ciclo – leggo da qualche parte, forse Google – è chiamato ritmo circadiano (dal latino “circa diem”, che significa “intorno al giorno” o “circa un giorno”) e permette al corpo di adattarsi alle variazioni ambientali, come l’alternarsi del giorno e della notte. In pratica, dice sempre l’onnisciente Google, il mio orologio interno è come un direttore d’orchestra che coordina diverse funzioni corporee, mantenendole sincronizzate con il mondo esterno e con le proprie esigenze. Questo orologio è regolato principalmente da una parte del cervello chiamata nucleo soprachiasmatico (troppo difficile per me), che riceve segnali di luce attraverso la retina e li trasmette al resto del corpo, sincronizzando il ritmo circadiano con il ciclo naturale di luce e buio, come spiega Santagostino, che non sapevo che il sant’uomo si fosse occupato di queste faccende, ma poi vedo che Santagostino non è il santo (che si sarebbe dovuto scrivere con l’apostrofo), bensì un magazine on line, mai frequentato, che tratta di questi problemi. Io non so se c’entra qualcosa il ritmo circadiano nel fatto che indovino sempre l’ora in cui mi sveglio, è possibile, perché no?, non lo discuto, non voglio contraddire quel cervellone di Franz Halberg (1919-2013) (“ritmo circadiano” è stato coniato dallo scienziato rumeno Halberg, uno dei fondatori della cronobiologia moderna), ma preferisco spiegarmi dicendo che “mi sento le ore addosso”, un’espressione che ho inventato io, e mi suona più simpatica, non me ne voglia la buon’anima del signor Halberg. ![]() Franz Halberg (1919-2013) Certe volte, quando devo svegliarmi alle cinque del mattino, ad esempio d’estate, per viaggiare evitando il caldo, non metto nemmeno la sveglia tanto è quella l’ora, le cinque, in cui mi sveglio regolarmente, caschi pure il mondo. E così accade, mi sveglio alle cinque in punto. Ho fatto da sveglia mattutina per tutte le donne con cui sono stato, loro si fidavano, non avevano dubbi che mi sarei alzato alle cinque, anche senza programmare la sveglia del cellulare, o della radiosveglia, fa lo stesso, e dopo mi ringraziavano. Non una volta che abbia fallito, un orologio svizzero, più che una risposta biologica. Un giorno, per curiosità, dopo avergli spiegato il fenomeno, chiedo al mio medico: «Perché proprio le cinque?». E lui: «Dipende dal suo ritmo circadiano che è…» «Lo so, lo so che cos’è, grazie» lo interrompo educatamente. «Le cinque perché il suo corpo, in base al consumo alimentare, la temperatura corporea, il metabolismo, lo stress, ecc., ha bisogno di interrompere il sonno a quell’ora». «Non è per caso che invece dipende dal fatto che ho le “ore addosso”?» avrei voluto dirgli al mio medico, che, rassicurante, è lì che si pavoneggia nel suo camice bianco stirato a pennello, ma evito. Che può saperne lui, poveretto, delle ore che ognuno si porta addosso. Mica gliel’hanno spiegato alla Facoltà di Medicina qual è l’inghippo strano del sentirsi le “ore addosso”. Su questa faccenda, l’dea che mi sono fatta io è un’altra, diversa dal ritmo circadiano, intorno al quale si son spese un sacco di chiacchiere inutili, non dimostrabili. Ancora non ho capito bene di che pasta sono fatti i cronobiologi, tipo l’illustre professor Franz Halberg che arriva a ipotizzare che i “ritmi circadiani” possono essere manipolati da sincronizzatori ambientali, in particolare dall’illuminazione e dai programmi di alimentazione. Sarà, ma io ho i miei dubbi. Io non credo alle fandonie raccontate dai cronobiologi, però prima di proseguire lasciate che vi sveli un particolare, un segreto che ho omesso di dirvi quando ho parlato dei miei risvegli mattutini alle cinque. Non è un dettaglio da poco. Prima di aprire gli occhi, ancora mezzo assonnato, incapace di distinguere lucciole da lanterne, in quello stato di semi-incoscienza a metà fra effetto-stordimento da fumo di hashish e annebbiamento da “mattità”, sento, chiara e distinta, una voce, una vocina che mi bisbiglia all’orecchio: “Su, Paolo, svegliati, è l’ora”. Questa vocina – Dio mi è testimone – prende fiato dalla presenza accanto a me di un temporizzatore individuale, una specie di clessidra umana, un orologiaio-fantasma che governa i miei tempi biologici. È lui che decide qual è l’ora in cui debbo svegliarmi, cioè alle cinque, che m’impone questa regola (ognuno ha il suo temporizzatore individuale, quello e non un altro, che stabilisce l’ora del risveglio mattutino). Da parte mia, non mi azzardo nemmeno a contraddirlo, lo temo, sarebbe capace d’incasinarmi e complicarmi l’esistenza. Non conviene mettersi contro il proprio temporizzatore individuale. In definitiva, questo significa per me “sentirsi le ore addosso”: avere al fianco un temporizzatore individuale, un suggeritore discreto dei ritmi del tempo, un custode che vigila sul flusso cosciente e incosciente della nostra vita (e lo risveglia quando vuole, a suo piacimento: per me sono le cinque del mattino, per un altro individuo sarà un’ora diversa), con buona pace della teoria cronobiologica del prof. Halberg, cui va il mio spassionato “tanto di cappello”, e dei suoi spalleggiatori. settembre 2025
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