Paolo Albani
LA MIA PANCIA




A tutti quelli che ce l’hanno

e non si rassegnano,

e la tirano in dentro,

trattenendo il respiro,

quando vengono fotografati.

 

 

 

Io e la mia pancia abbiamo un rapporto conflittuale. Siamo due entità diverse, non compatibili. Viviamo insieme, ma è come se fossimo separati in casa. Ci guardiamo circospetti. Non ci fidiamo l’uno dell’altra.

Tanto per dire: lei conduce la sua esistenza nel mondo pantagruelico cui appartiene con grande disinvoltura, e godimento, si crogiola in una dimensione prominente, una rotondità mollemente slanciata in avanti, che in confronto la pancia di Honoré de Balzac – avete presente? – è uno scherzo. Una bazzecola.


        


Io invece vivo nel mio, di mondi. Che è l’opposto, per scelte di vita, di quello impersonato dalla mia pancia che s’ingegna di mettere in opera, e non se ne vergogna, anzi ne è felice, qualsiasi espediente per conseguire lo standard fisico dell’attore Gérard Depardieu, nel suo “fulgore” di oggi, o del Marlon Brando versione “ultimi anni”, quando i vestiti che indossava – per via dell’ingombrante stazza – non li trovava certo sulle bancherelle dell’usato o nei magazzini popolari.

I miei modelli (ipotetici) sono i fachiri indiani, i contorsionisti, i trapezisti, i digiunatori di professione (se ce ne fossero ancora, come il mitico Giovanni Succi di Cesenatico), i ballerini del Teatro della Scala, gli atleti, specie quelli che fanno gli anelli (provate a fare l’esercizio della croce in verticale, detto anche “il Cristo”, sugli anelli, e poi ne riparliamo), e in generale tutti coloro che sono magri di natura, per costituzione, senza bisogno di fare diete, perché hanno un metabolismo che gli mantiene il fisico asciutto, persone che anche se mangiano un mega-panino con la mortadella o due carbonare strabordanti dal piatto non prendono un filo di grasso. Beati loro!

   Parlo della mia pancia perché non la sopporto più, vorrei che sparisse, si liquefacesse, ritornasse indietro da dov’è venuta, ai tempi di quando da giovane mettevo pantaloni taglia 36. Una chimera, quei pantaloni!

   Quand’ero magro, da ragazzo (è passato più di mezzo secolo!), la mia mamma mi diceva che qualsiasi cosa indossassi, anche uno straccio, sembravo un figurino. Cuore di mamma.

    Oggi devo affrontare la strafottenza della mia pancia, che non si arrende di fronte alla mia riluttanza, mi costringe alle corde, m’incalza. È talmente invadente che se guardo in basso, per colpa sua, non riesco a vedermi le parti intime e nemmeno la punta dei piedi.

È mai possibile uno strazio del genere!

     Cos’ho fatto di male per meritarmi una pancia così indecente?

 

   Il momento più drammatico, si può immaginare, viene d’estate, con la cosiddetta “prova costume”. In spiaggia non c’è verso di nasconderla la pancia, anche se uno s’infila costumi ascellari alla Fantozzi. Bisognerebbe piazzarsi sotto l’ombrellone dentro una tunica araba, bella larga, abbondante. Però anche in questo caso non ne sono sicuro, la pancia non si mimetizza, la sua malefica “collinetta” non sfugge allo sguardo dei bagnanti.

      Senza contare le battutine stupide degli amici, ne ho sentite di tutti i colori:

      «Tu non hai la pancia, mio caro. No, per niente, si direbbe più un airbag».

      «Sei fortunato, in acqua galleggi bene con quel salvagente intorno alla vita».

      «Il detto “Pancia mia fatti capanna” sembra coniato apposta per te».

      «Di quanti mesi sei?».

 

     Per far sparire la pancia basta dimagrire, mi suggerisce una vocina.

Eh, sì, facile a dirsi.

    Da parte mia io sono d’accordo, disdegno ogni cibo superfluo, i grassi che fanno male al colesterolo, o gli alcolici, praticamente sono astemio, i dolci, le fritture di pesce eccetera eccetera. Da buon salutista propugno una dieta equilibrata, frutta e molte verdure, non fumare, camminare, fare ginnastica, bere due litri d’acqua al giorno, andare a letto presto. Insomma sintonizzarsi con la lunghezza d’onda dei ritmi di una vita sana, da asceta.

Questo è il modello da seguire. Per un futuro migliore che «ci levi i medici d’intorno».

     Ma qui casca l’asino. È una lotta estenuante.

Perché c’è chi si oppone tenacemente a questi miei balsamici propositi, che li combatte con ogni mezzo, e vuole sconfiggerli, umiliarli, fiaccarli fino a renderli innocui.

Si sarà capito. Alludo a lei, alla mia pancia. Il mio balzacchiano davanzale, insopportabile fardello. Non ci sente da quest’orecchio, è inamovibile. Il suo obiettivo è espandersi, ingrossarsi, prendere il sopravvento e mettermi da parte. Neutralizzarmi perché lei possa fare i suoi porci comodi (letteralmente!), che poi si riducono a uno: AUMENTARE LA PROPRIA CUBATURA.

Pancizzarsi! Con una crescita esponenziale. A mie spese, per di più, dato che alla fine sono io che pago per i cibi che lei s’ingurgita (e che in alcune circostanze, presi in grandi quantità, le procurano spiacevoli conseguenze, nausea, strizzoni, vomito, bruciori, sudorini freddi, brividi, ecc.).

   Ormai noi due, io e la mia pancia, pur condividendo, ahimè, il medesimo corpo, siamo diventati acerrimi nemici, due estranei. Ci detestiamo.

Non so quale piega prenderà questo furioso accapigliarmi con la mia pancia.

Una separazione? Speriamo.

Magari uno di questi giorni, se mi prende lo schiribizzo, finisce che, per tapparle la bocca, la sgonfio, la mia pancia, come una camera d’aria, prendo un coltello da cucina, di quelli affilati per tagliare l’arrosto, e me lo conficco nel ventre. Faccio harakiri!

Così impara a mettersi di mezzo, l’ingorda!


gennaio 2022

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