Paolo Albani
LA PAROLA
COME OGGETTO
ANOMALO, ANCHE

 

 1. Introduzione

 Dal gennaio al marzo del 2000 ho tenuto presso l’Università del Progetto di Reggio Emilia, un “ambiente progettuale” che svolge le proprie attività nel design e nella comunicazione, un corso di sensibilità alle parole intitolato, parafrasando una celebre opera di Marcel Duchamp: La parola come oggetto anomalo, anche.
Il corso prevedeva al mattino lo svolgimento di lezioni, con ausilio di strumenti audiovisivi, schede riassuntive riguardanti concetti, esempi di testi creativi, note su autori, bibliografie orientate, insieme alla riproduzione di immagini da libri d’artista, da cataloghi di mostre e simili, proiettate su grande schermo, e poi ancora con letture, improvvisazioni e performance dal vivo, e al pomeriggio una fase applicativa di esercitazioni a tema. Per grandi linee espongo qui di seguito l’organigramma delle mie lezioni e quella dei laboratori.
Dopo alcuni cenni introduttivi sulle diverse modalità d’approccio alla parola Parola, ovvero sulle funzioni del linguaggio, sulle caratteristiche fonetiche e grafiche e sulle articolazioni dei segni linguistici, il corso si è preoccupato di analizzare alcuni aspetti insoliti e bizzarri dell’oggetto-parola, investigando su:

• la parola inesistente (ad es.: neologismi, lingue fantastiche, glossolalie dei pazzi);
• la parola musicale (ad es.: fonosimbolismo, poesia sonora, linguaggi onomatopeici);
• la parola figurata (ad es.: tecnopegnio, parole in libertà, calligrammi, poesia visiva);
• la parola divertita (ad es.: giochi poetici, letteratura potenziale, ludolinguistica);
• la parola comica (ad es.: lapsus, nonsense, spropositi letterari, parodie scientifiche).

 Nell’introduzione generale al corso mi sono soffermato sul concetto di parola come oggetto, utensile, congegno, strumento materiale da modificare, plasmare, manipolare, e su quello di anomalia, intesa come deviazione o difformità da una regola, da una struttura o da un comportamento considerati normali. Tutto ciò finalizzato a sorprendere il linguaggio nei suoi aspetti insoliti, singolari, in qualche modo anomali.
Come il designer deve conoscere le potenzialità del materiale (ferro, legno, plastica, ecc.) dell’oggetto che intende progettare, così per giocare con le parole bisogna conoscere le potenze bifide, deflagranti del linguaggio. Acquisire questa conoscenza è possibile per via sperimentale, procedendo attraverso le anomalie, le bizzarrie, le stravaganze, le curiosità del linguaggio.
L’approccio al linguaggio ha preso in esame principalmente:
• le sue caratteristiche visive dove quello che domina è l’elemento ottico, pittorico della scrittura, la sua geometria, la sua spazialità, dove cioè le parole sono assunte come puri oggetti estetici, autonomi dal loro significato;
• le sue caratteristiche sonore dove l’attenzione è posta sul dato fisico-acustico della parola, sulla sua musicalità, sulla sua sostanza fonica, anche qui sganciata, autonomizzata dal livello semantico codificato;
• le sue caratteristiche di veicolo della fantasia, dell’immaginazione: il linguaggio non solo come strumento di comunicazione, ma come una meravigliosa macchina capace di comporre con venticinque o trenta suoni un'infinita varietà di parole (anche inesistenti, nonsensiche), un congegno sempre in divenire, che si trasforma e non è mai compiuto, con un'illimitata potenzialità espressiva;
• le sue caratteristiche di spiazzamento nei confronti della logica, dell’ordine conosciuto delle cose attraverso i meccanismi del gioco e della comicità.
 Una fase di rodaggio per prendere familiarità con alcune nozioni elementari di semiotica, in particolare con i concetti di comunicazione, segno e struttura, è servita ad offrire un’idea generale, da un lato, del funzionamento dei segni e della loro influenza sociale e, dall’altro, del modo in cui sono costituiti i testi (opere letterarie, immagini, produzioni audiovisive, oggetti artistici, manufatti) (Eco 1973; Volli 2000).
 Nel primo laboratorio del corso abbiamo composto degli “esercizi di stile” alla maniera di Raymond Queneau ovvero, partendo da un testo “banale”, lo abbiamo riscritto usando vari stili (telegrafico, metaforico, onomatopeico, gergale, ecc.) (Queneau 1983).

2. La parola inesistente

Dopo una sintetica esposizione sul rapporto comunicazione e retorica, in cui si è parlato delle figure retoriche (di morfologia, di sintassi, di significato, di pensiero) e del legame che intercorre fra immagini (in specie quelle pubblicitarie) e retorica (Napoli 1995), il corso si è inoltrato nel mondo magico della parola inesistente, procedendo fra neologismi, capaci di condensare in un segno unico tutto un sistema descrittivo, e lingue immaginarie congegnate in letteratura (fantastica, fantascientica, ludica e sperimentale) e in altri settori della ricerca artistica: si pensi ad esempio allo scat, tecnica vocale del jazz consistente nell’imitazione di uno strumento da parte della voce, con sillabe o parole senza senso (Albani e Buonarroti 1994). In questa sezione del corso abbiamo parlato di false etimologie (Sebregondi 1988), del grammelot di Dario Fo, un’emissione di suoni che riproduce, in modo burlesco, la struttura sonora di una determinata lingua senza però pronunciare parole reali (Pozzo 1998) e delle fanfole di Fosco Maraini, divertenti “poesie metasemantiche” composte per lo più di parole inventate (“Ci sono giorni smègi e lombidiosi/ col cielo dagro e un fònzero gongruto/ ci son meriggi gnàlidi e budriosi/ che plògidan sul mondo infrangelluto…”) (Maraini 1994). E poi ancora delle parole-valigia, ottenute saldando la testa di una prima parola con la coda di una seconda (smoke + fog = smog) e di altre forme di ibridi linguistici, citando, fra le altre cose, i neologissimi di Luigi Malerba (“Scemiologia: scienza generale degli scemi, da non confondere con la semiologia, scienza generale dei segni”) (Malerba 1977) e i finneghismi (termine ripreso dal titolo del libro di James Joyce Finnegans Wake, 1939) di Umberto Eco, cioè parole-macedonia accompagnate da una definizione plausibile, sul tipo di colfinger: agente segreto sotto le mentite spoglie di collaboratrice domestica; arfabeto: sistema di scrittura per cani; carneaficina: massacro di filosofi greci ignoti ai più (Eco 1995). 
Abbiamo visitato alcune biblioteche immaginarie, prima fra tutte quella dell’abbazia di San Vittore descritta da François Rabelais nel Gargantua e Pantagruele (contenente libri quali Il Pissipissi dei Padri Celestini o Il Coglionamento dei promotori), e letto e discusso una serie di recensioni a libri inesistenti, come quella di Eco sul testo intitolato Aspetti iniziatici della supposta (Eco 2000: 290-291). Abbiamo infine preso contatto con il meraviglioso scientifico, cioè con le scienze anomale e immaginarie, elaborate da “pazzi letterari”, da studiosi eterodossi o partorite dalla fantasia di alcuni scrittori, visitando curiose Istituzioni come il Collegio di ‘Pa-tafisica, la Facoltà di Scienze inutili di Barcellona, la Società degli Onironauti che studia la materializzazione dei sogni e la Facoltà di Irrilevanza Comparata dove s’insegnano discipline come Fonetica del film muto e Urbanistica tzigana (Albani e della Bella 1999). 
Su questa tematica abbiamo approntato il nostro laboratorio, inventando “finneghismi”, “parole-valigia”, “fanfole”, abbozzando la descrizione di libri fantasma e poi ancora creando scienze, discipline e teorie strampalate, Accademie e Università anomale e improbabili.

3. La parola musicale

Introducendo la parte del corso sulla parola musicale si sono fatti alcuni cenni sulla distinzione fra foni, fonemi e allofoni, sul ruolo dei tratti soprasegmentali (tonalità della voce, interruzioni, sospiri, sbadigli, pianto, ecc.) e del sistema intonativo (“non è quello che dici, ma il modo in cui lo dici”) e sull’incandescente eloquenza delle onomatopee (primarie, secondarie o inventate) (Crystal 1993: 160-175). Quindi abbiamo affrontato la problematica della musicalità delle parole, concentrandoci sul ritmo in poesia, ovvero su quella trama di attese, appagamenti, disappunti e sorprese che il succedersi delle sillabe comporta. Abbiamo analizzato rime e rimari stravaganti insieme ad alcuni esempi di armonie imitative escogitate dai poeti, dal verso di Francesco della Rovere, poeta cinquecentesco, che dice “Farò durundandà; tu fa’ dindino” fino al linguaggio dei passeri che Giovanni Pascoli nei Canti di Castelvecchio esprime con un ripetuto telterelltelltelltelltell e oltre (Scarlatti 1988: 210-232). 
Dopo una breve digressione sul fonosimbolismo, cioè sull’idea che il significante possa avere una significazione autonoma affidata al puro gioco dei suoni, siamo infine approdati all’esperienza della cosiddetta “poesia sonora”, una poesia che privilegia la parola come dato fisico-acustico, come puro suono, rumore, musica, con un volo che ci ha portati dalla declamazione futurista fino alla ricerca contemporanea di nuove sonorità, sostenuti dall’ascolto di audio-esemplificazioni (Lora Totino 1989). Abbiamo così sentito brani della lingua trasmentale (la zaum’) dei futuristi russi, una lingua priva di regole grammaticali, di prescrizioni sintattiche, di convenzioni semantiche e di norme stilistiche, creata per esprimere le emozioni e le sensazioni primordiali che vanno perdute nei significati della lingua comune, frammenti di poesie fonetiche nate durante l’esperienza del movimento Dada e vari funambolismi vocali delle più recenti sperimentazioni della neo-avanguardia. In questo modo abbiamo esplorato le straordinarie potenzialità espressive legate all’uso della voce, sempre più valorizzate dall’impiego di tecnologie elettroniche (D’Ambrosio 1979). 
Il laboratorio sugli aspetti musicali della parola prevedeva la stesura di una poesia fonetica usando esclusivamente onomatopee alla maniera dei dadaisti, mescolando parole di un ipotetico linguaggio primitivo con altre di sapore infantile.

 4. La parola figurata

 Per introdurci alla plasticità della parola figurata siamo partiti dai concetti di grafo, grafema e allografo, esaminando poi un vasto campionario di “alfabeti animati” e variegate espressioni di poesia visuale, come il tecnopègnio (dal greco téchne, arte, e páignon, gioco) e i calligrammi di Guillaume Apollinaire, dove la diversa lunghezza e la disposizione dei versi disegnano il profilo di un elemento materiale (nave, piramide, anfora, pioggia, fumo, ecc.) (Apollinaire 1986; Massin 1995; Pozzi 1981). Le tavole parolibere dei futuristi e in particolare le pubblicità di Fortunato Depero ci hanno offerto ulteriori spunti di riflessione sul rapporto parola-immagine. Un approfondimento è stato dedicato ai termini “simultaneismo percettivo”, “multi-medialità”, “arte totale, sinestetica, plurisensoriale”, in vario modo esprimenti il coinvolgimento simultaneo di tutti i sensi che oggi sempre più caratterizza la fruizione dell’opera d’arte contemporanea (Pignotti 1990). 
Le esercitazioni di un primo laboratorio sulla parola figurata erano così strutturate: disegnare delle parole con una forma grafica che ne metta in evidenza il significato; far parlare un oggetto (un uovo, una sedia, una lampadina, ecc.) dando alle sue parole un aspetto grafico che permetta all’oggetto stesso, sebbene mai nominato, di essere riconoscibile solo dai lineamenti della scrittura; inventare un calligramma alla maniera di Apollinaire.
 Sempre pensando alla parola dipinta (in primo luogo alle vocali colorate di Arthur Rimbaud) e agli innumerevoli artifici per l’occhio abbiamo ricostruito in estrema sintesi un piccolo catalogo di tecniche visive: collage, décollage, assemblage, combine-painting, frottage e rollage (Grassi e Pepe 1994). Uno sguardo abbiamo rivolto alla scrittura verbo-visuale e più in dettaglio alla Poesia visiva, una sorta di pittura da leggere o di poesia da guardare, movimento artistico nato negli anni sessanta con intenti bellicosi di “guerriglia semiologica”, inscenata per capovolgere il significato dell’informazione diffusa dai media attraverso l’ironica utilizzazione di immagini e slogan di vasta circolazione, per lo più ripresi dalla pubblicità, dalla stampa e dalla cartellonistica (Pignotti e Stefanelli 1980; Spatola 1978).
Un testo può vibrare anche in virtù delle suggestioni di un ritmo visivo, come accade nei pittogrammi di Raymond Queneau, storie raccontate per immagini, usando grafie inconsuete (Queneau 1981: 167-175). Ancora un passo in avanti e la nostra analisi del linguaggio visuale è approdata in prossimità dei logotìpi e dei marchi commerciali, segni disincantati di un moderno connubio tra parola e immagine. 
Gli esercizi di un secondo laboratorio sulla parola figurata erano: delimitare lo spazio del foglio con una figura geometrica (quadrato, rettangolo, cerchio, losanga, ecc.) di varia dimensione, quindi inserire una o due parole al massimo usando alcuni artifici grafici (ingrandimenti, riduzioni, spezzature, sovrapposizioni, ecc.); costruire un’immagine con una o più lettere o segni d’interpunzione (punto, virgola, ecc.); fare un collage combinando parole e immagini con ritagli di riviste.

 5. La parola divertita

 Per affrontare con serietà la parola divertita abbiamo inizialmente scomodato le elaborazioni teoriche sul gioco di Johan Huizinga e Roger Caillois, ormai dei classici della giocologia (Caillois 1989; Huizinga 1982). Come in un campo minato ci siamo mossi guardinghi fra alcuni tentativi di classificazione dei giochi di e con le parole, affrontando le trappole dei lapsus e delle contrepèterie, gli slittamenti degli spoonerismi, gaffe create dall’inversione di lettere o sillabe (DettaTura/TettaDura), che prendono il nome dal prete anglicano William Archibald Spooner (1844-1930), uomo irascibile, famoso per i suoi spropositi linguistici, e la ricchezza immaginativa degli errori di stampa, così cara a Johann Wolfgang Goethe (“Penso sempre, quando vedo un errore di stampa, che qualcosa di nuovo è stato inventato.”) e ad Alberto Savinio (“Alcuni errori sono più che felici, sono provvidenziali.”) (Dossena 1999; Pozzi 1984; Zamponi 1986). Il saggio Come ho scritto alcuni miei libri (1935) di Raymond Roussel, in cui lo scrittore francese svela il suo procedimento di scrittura basato sulle allitterazioni e sui doppi sensi delle parole, ci è servito per discutere i rapporti fra letteratura e giochi di parole. Il primo laboratorio dedicato al gioco proponeva di cercare gli anagrammi del proprio nome e cognome e con essi costruire, se possibile, un testo (ogni riga un anagramma); di comporre un acrostico o un mesostico; di prendere una parola a caso, di scriverla come inizio di frase, quindi di formare un testo con parole che iniziano con l’ultima sillaba della parola precedente (il sorriso soffice celava vari ritorni).
 In una successiva lezione abbiamo parlato dei giochi inventati dai surrealisti, grandi manipolatori del linguaggio, e dell’esperienza dell’OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle-Opificio di Letteratura Potenziale), gruppo di scrittori e ricercatori scientifici fondato a Parigi nel 1960 da François Le Lionnais e Raymond Queneau, cui parteciparono, fra gli altri, Georges Perec e Italo Calvino (Garrigues 1995; Oulipo 1985). 
Il “potenziale” della letteratura oulipiana sta a significare che si tratta di una letteratura ancora da farsi, inesistente, da scoprire in opere già prodotte o da inventare attraverso l’uso di nuove procedure linguistiche, una letteratura mossa dall’idea che la creatività, la fantasia trovano uno stimolo nel rispetto di regole, di vincoli, di costrizioni (contraintes) esplicite, come ad esempio quella di scrivere un testo senza mai usare una determinata lettera (lipogramma). La costrizione è strumento creativo, che amplifica le probabilità di raggiungere soluzioni originali, bizzarre: l’essere costretti a seguire certe regole induce uno sforzo di fantasia; la costrizione non limita l’orizzonte delle strategie narrative dello scrittore, al contrario ne allarga le “potenzialità visionarie”, paradossalmente è “un inno alla libertà d’invenzione”, capace, come ha scritto Calvino, “di risvegliare in noi i demoni poetici più inaspettati e più segreti”. Senza dimenticare che esiste sempre la possibilità di “una leggera deriva” in grado di distruggere il sistema stesso delle costrizioni, uno scarto giocoso e liberatorio che Perec chiama clinamen (nella fisica epicurea, una deviazione spontanea degli atomi). 
Questa volta gli esercizi del laboratorio riguardavano la tecnica del lipogramma (riscrivere un determinato testo senza usare la lettera “a” oppure la “e”); il metodo S + 7 (sostituire a ogni sostantivo di una frase di partenza il settimo sostantivo successivo in ordine alfabetico di un vocabolario); l’aggiunta poetica (partendo dal verso di un poeta famoso, scriverne un altro della stessa misura, o quasi, che faccia rima con il primo; esempio: Nel mezzo del cammin di nostra vita / Accesi la TV per la partita).

 6. La parola comica

 Nell’ultima parte del corso ci siamo occupati del lato “divertente” del gioco linguistico, muovendo dal presupposto che diverte chi è capace di stupire in modo originale ovvero chi riesce a mostrare un aspetto sorprendente, inatteso, nuovo, inusitato del codice linguistico, generando nel lettore sorpresa e spaesamento. Difficilmente definibile in modo esaustivo per la sua enorme e continua libertà d’invenzione, il comico, genericamente inteso come tutto ciò che è capace di produrre il riso o il sorriso, e dunque di riflettere e di ricreare una delle fondamentali esperienze umane, è stato un terreno fertile per la fioritura di molte teorie. Fra le più importanti quella di Henry Bergson per il quale il riso nasce dall’evidenza della meccanicità della vita e del corpo ridotto a burattino, a oggetto; quella di Sigmund Freud secondo cui il motto di spirito è una scarica di energie psichiche represse e quella di Luigi Pirandello che definisce l’umorismo come il “sentimento del contrario” (Ferroni 1974; Santarcangeli 1989). Abbiamo parlato anche dell’umorismo nero di André Breton e dell’umorismo involontario, forse il più sublime, come quello di Pierre-Alexis Ponson du Terrail (1829-1871), autore del popolare ciclo di Rocambole, 22 volumi usciti nel periodo 1859-1867, che scrive frasi di questo tipo: “Con la mano destra afferrò il pilota, con la sinistra strinse a sé la fanciulla, e coll'altra chiamò al soccorso!”; oppure: “Egli passeggiava su e giù pel giardino con le mani dietro la schiena, leggendo tranquillamente il giornale”; e ancora: “Ah! Ah! - fece egli in portoghese”; “E la carrozza partì al rapido trotto di due cavalli lanciati al galoppo!”; “Si toccò la mano... Orribile!! La sua mano era viscida e ghiacciata come quella di un serpente!” 
Un certo rilievo abbiamo dato alla comicità scientifica, dirompente negli articoli raccolti negli Annals of Improbabile Research, la rivista americana che assegna ogni anno gli Ig-Nobel, gustosi contro-Nobel che premiano indagini scientifiche di esilarante assurdità. Gli Annals hanno ospitato studi sulla misurazione delle onde cerebrali di un campione di volontari nell’atto di masticare chewing-gum di diversi colori o sullo spennamento delle galline come indicatore della velocità degli uragani (Abrahams 1999).
Abbiamo speso due parole anche sul sorriso che provocano gli oggetti anomali, da quelli d’affezione di Man Ray, di cui resta famoso il ferro da stiro con la parte liscia della piastra costellata di chiodi, a quelli introvabili di Carelman, noto per la sua caffettiera del masochista che ha il manico dalla parte sbagliata, per finire con quelli inutili di Bruno Munari progettati per suonare il piffero, prevedere l’aurora, mortificare una zanzara ed altro (Carelman 1978; Man Ray 1970; Munari 1994).
 Il laboratorio di questa sezione era indirizzato a descrivere un oggetto improbabile, sulla falsariga dell’acchiappa-nuvole, un marchingegno per fare ombra d’estate sulle spiagge assolate o della bi-pentola progettata per cuochi gemelli o infine dell’agitatore di coda per cani pigri.
Il corso è terminato con una breve escursione intorno alla letteratura del nonsenso, là dove il comico si maschera fra le pieghe di un vertiginoso e caotico pastiche di parole (Rinaldi 1997). Qui abbiamo familiarizzato con il limerick, una specie di filastrocca nonsensica resa famosa dallo scrittore e pittore inglese Edward Lear (1812-1886), che scrisse molte di queste poesiole assurde per i suoi nipotini (Lear 1970; Manfredi e Trucco 1994). Ecco un esempio di limerick leariano: “C’era un vecchio di palude/ di natura futile e rude/ seduto su un rocchio/ cantava stornelli a un ranocchio/ quel didattico vecchio di palude”. Alla tecnica di costruzione del limerick ci ha introdotto Gianni Rodari, delizioso conoscitore della grammatica della fantasia (Rodari 1973: 43-45). Il discorso ha spaziato infine sul plurisignificato delle parole e sugli slittamenti semantici, vale a dire sull’ambiguità nutritiva del linguaggio, tanto più stimolante, specie nel campo poetico-letterario, quanto più ingenera dubbi e incertezze fruttiferi, cortocircuiti della fantasia, un ampliamento degli orizzonti interpretativi.
Nel menu del nostro ultimo laboratorio erano suggeriti due esercizi: 1. scrivere un limerick; 2. prendere un proverbio, una frase famosa, un luogo comune e stravolgerne il senso con il semplice cambio di una lettera o di una parola; ad es.: Meglio tarli che mais, Chi dorme non spoglia peschi, Ogni nodo sviene al petting, Una parola stira l’altra.
 
 

Riferimenti bibliografici

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Testo pubblicato sulla rivista, diretta da Raffaele Simone, "Italiano & oltre", 5, 2000, pp. 236-241.
Questo saggio è stato ristampato anche in Un'idea tira l'altra. Esercizi di scrittura ri-creativa, a cura di Elisabetta Pertoldi e Virginia Boldrini, Campanotto Editore, 2004. 
Il libro, curato da Pertoldi e Boldrini, è stato recensito da Giampaolo Dossena su "Domenica" de Il Sole 24 Ore del 30 ottobre 2005, p. 48.
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